Ma quando inizia lo spettacolo? Si chiedeva lo spettatore, alquanto indispettito, seduto sullo sgabello vicino a noi, incredulo dopo aver assistito allo “spettacolo” di Romeo Castellucci nel grande e accogliente spazio verde alle porte di Santarcangelo in cui la performance della Societas era stata posizionata.
Ancora, dopo oltre quarant’anni di presenza assidua, il Festival di Santarcangelo – che quest’anno si è svolto dall’8 al 18 luglio – ci continua a stupire, sia perché nei due giorni in cui lo abbiamo frequentato la pioggia, evento assai raro nel caldo luglio romagnolo, ci ha accompagnato quasi ininterrottamente, sia per l’ingenua domanda-imprecazione del nostro vicino di sgabello, impreparato a una manifestazione così caratterizzata dagli eventi performativi e da un artista come Castellucci.
Del resto, caro il mio vicino di sgabello, sfogliando il bellissimo e corposo contributo realizzato per i 50 anni del festival, curato con passione e competenza da Roberta Ferraresi, avresti scoperto come in questo sacro suolo del teatro, ogni possibilità che la scena possiede sia stata rappresentata, e scopriresti un passato meraviglioso, in cui si sono avvicendati migliaia di artisti a cui avresti forse fatto la stessa domanda. Avresti condiviso un percorso unico nel nostro Paese attraverso anche un apparato fotografico che ci ha ricondotto in periodi storici davvero eclatanti, dove tutto Santarcangelo condivideva un rito che si riverberava in mille forme per tutto il paese, invaso da migliaia di spettatori.
Ora, caro amico, non è più quel tempo, e ci dobbiamo accontentare di quello che c’è, magari nascosto in qualche anfratto, che spesso può non soddisfarci completamente; nonostante tutto, la nostra ricerca sulla scena dello stupore continua indefessa.
Torniamo a noi, caro vicino di sgabello, tu dovresti comunque sapere che al Castellucci, il teatrante italiano forse più noto e stimato all’estero, poco importa che uno spettacolo abbia inizio o una fine, se abbia degli attori o degli animali: lui ha una sua concezione di teatro che abbraccia in modo molto personale ogni forma e ogni contenuto, spesso disorientandoci, ma mai lasciandoci emozionalmente inerti.
Del resto, la performance che hai visto non è uno spettacolo, ma una video-installazione, coprodotta dalla Triennale di Milano, che per sua natura ha un’attenzione costante sulla forza delle immagini.
“Terzo Reich”, di cui Klp aveva già parlato durante il debutto a Milano, si basa sulla ossessiva e ossessionante rappresentazione di migliaia di sostantivi connaturati a oggetti della realtà del vocabolario italiano, proiettati – uno a uno – su un megaschermo.
Il tuo sguardo, nei 50 minuti della visione, si dovrebbe essere perso in questo verbale magma frenetico dove le parole rimbalzano, si mescolano, ballano tra loro, accompagnate da una musica creata dall’abituale collaboratore di Castellucci, Scott Gibbons, anch’essa ossessiva seppur mutevole. La quasi totalità di loro si perde nella tua memoria, mentre alcune, senza nessuna scelta precisa, ti rimarrà impressa.
Perchè “Terzo Reich” ti domanderai? Non preoccuparti, anche noi che siamo abituati ad assistere a questi spettacoli lo abbiamo scoperto dalle note: “è l’immagine di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza”. Hai dunque compreso?
Forse in opposizione a noi, che solo superficialmente lo abbiamo gradito, ti è parso più interessante la performance itinerante ed immersiva “Sonora desert” dei Muta Imago, di cui abbiamo visto esiti assai più interessanti e intimamente più coinvolgenti. L’abbiamo vissuta insieme, ambientata nelle bellissime stanze della Magione dei Torlonia a San Mauro Pascoli, quella dove lavorava il padre del poeta, per intenderci.
“Sonora desert”, a cavallo tra installazione e performance, è ispirata a un viaggio compiuto, o forse solo immaginato, da Claudia Sorace e Riccardo Fazi nel Deserto di Sonora, uno dei deserti americani più estesi, al confine tra l’Arizona e il Messico.
In una stanza ti hanno fatto leggere scritti e brani di un diario redatto in relazione ad un percorso compiuto in un luogo così particolare, mentre in un’altra sicuramente ti sarà piaciuto stenderti su un’amaca, mentre la tua mente vagava tra vibrazioni e stati di coscienza, con le musiche appositamente composte da Alvin Curran e le luci di Maria Elena Fusacchia.
Io spero che tu ti sia veramente perso tra sonno e veglia, “in uno stato dove il tempo e l’io tendono a fondersi sino a scomparire”. E nel contempo spero tu abbia avuto il tempo di fermarti nella terza stanza del percorso, a rifocillare il corpo e la mente.
Ti sei stupito nel conoscere tutte le grandi possibilità che il teatro di figura possiede? Prendiamo ad esempio “Abitare il ritorno. Echi e visioni di donne uomini e oggetti”, esito del laboratorio condotto da Fabiana Iacozzilli, regista di cui ti consigliamo di vedere anche il suo bellissimo spettacolo “La classe”.
Il laboratorio, condotto a partire dal mese di febbraio 2021 in collaborazione con Antonia D’Amore e Luca Lòtano, è stato realizzato con le studentesse e gli studenti delle scuole di italiano di Asinitas (Onlus impegnata soprattutto nell’educazione, accoglienza e integrazione di migranti e richiedenti asilo), in un gruppo misto composto da italiani e stranieri, partendo dal concetto “da dove vengo?”.
Sulla base delle biografie condivise dagli stessi partecipanti è nato lo spettacolo, frutto di un progetto più grande, chiamato “Incroci”. Dal 16 al 18 luglio a Santarcangelo sono state presentate le tre opere teatrali di questo composito progetto, frutto dei laboratori e degli scambi fra le tre realtà nazionali coinvolte: Teatro Magro (Mantova), Asinitas Onlus (Roma) e il Progetto Amunì di Babel Crew (Palermo). Esse hanno voluto condividere le esperienze artistiche, le pratiche e i metodi volti ad un obiettivo comune: integrare giovani migranti, italiani di seconda generazione, richiedenti asilo e rifugiati attraverso il teatro e l’arte performativa intesa come supporto a un processo sociale.
Anche questo è il teatro, amico mio, ed è stato giusto e doveroso proporlo in un festival così aperto come quello romagnolo.
Poi eccoci alla danza, linguaggio che, penso anche tu, qualche volta trovi ostico da decifrare, ma dove abbiamo imparato ad immergerci spesso senza farci troppe domande, chiedendoci solamente se quello che abbiamo visto ci ha o no coinvolto.
Cosi è accaduto in “Pa.Ko Doble”, dove abbiamo visto in scena l’artista bolognese Paola Stella Minni e il greco Konstantinos Rizos: “Ci ha divertiti l’idea di creare un paso doble, partendo proprio dal senso di fiducia e di squadra che nel nostro immaginario accomuna i partner di una coppia di ballo, permettendoci in fondo di osservarci al lavoro, rivedere le strategie di collaborazione, i ruoli, e porci domande anche banali sulla presenza, sullo sguardo, sulla composizione”. Eccellente la qualità della danza e l’immaginario diverso messo in campo dai due performer, in uno spettacolo su cui aleggia il Duende, il folletto caro a Garcia Lorca, a cui ognuno può dare la figura e la forma che preferisce.
Penso poi che insieme, caro vicino di sgabello, ci siamo commossi e ammaliati nell’assistere non ad uno spettacolo ma ad un film, all’interno del bellissimo progetto della compagnia Motus (guidata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, sono loro i direttori artistici di questa edizione), “Cinéma du desert”, che ha portato il cinema in luoghi desueti, in questo caso l’ex cementeria UNICEM. Qui abbiamo visto con grande curiosità ed emozione “Il Nuovo Vangelo” dello stimatissimo regista Milo Rau, proiettato in un luogo dimenticato e tutto da ricostruire.
Sulle tracce di Pasolini e del suo “Vangelo secondo Matteo”, a Matera il regista svizzero torna alle origini del personaggio di Cristo, affidandone il ruolo all’attivista camerunense Yvan Sagnet, bracciante per la raccolta dei pomodori, che nel 2011 ha promosso il primo sciopero dei braccianti migranti in Italia.
Rau accompagna la costruzione del suo film con la visita ai più grandi campi di rifugiati del Sud Italia, che oggi diventano, poeticamente, i nuovi discepoli di Cristo. Ed è in quei luoghi attorno a Matera, la stessa città dove Pasolini ha girato il suo film, accompagnati dalla “Musica funebre massonica” di Mozart, che quel messaggio di dignità si riverbera ancora una volta con forza contemporanea.
Come hai forse inteso, caro amico dello sgabello accanto, pur frequentando da decenni tutte le forme teatrali possibili, capita anche a noi, nel bene e nel male, di affrontare le tue stesse difficoltà davanti a performance di cui fino in fondo non capiamo tutti gli intendimenti; al contempo veniamo coinvolti in altre potenti magie che solo l’arte ci può comunicare. Ti diamo quindi un consiglio: goditi quello che vedi gettandoti dentro senza domandarti se lo spettacolo abbia una fine o un inizio o un fine; il teatro è così, come lo hai visto tu e lo abbiamo visto noi al Festival di Santarcangelo: imprevedibile e meraviglioso, scontato e superficiale, ermetico e poetico. Ma credimi, vale sempre la pena di frequentarlo senza farci troppe domande, è solo dentro di te che troverai le risposte.