L’edizione 2023, appena conclusa, ha proposto attraverso 40 artisti internazionali una serie di domande urgenti su disuguaglianze, ingiustizie ed emergenze globali
La 53^ edizione del Santarcangelo Festival si è aperta nel segno della rinascita, dopo la recente alluvione, alla presenza del presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini che, nella mitica piazza Ganganelli, ha sottolineato l’indomita capacità della sua gente di rialzarsi, come già capitato per il terremoto del 2012.
Per il secondo anno la programmazione è stata curata dall’attivista, drammaturgo e critico teatrale polacco Tomasz Kirenczuk, tra le cui pieghe ci è sembrato di riconoscere ancora il tema dell’identità, intimamente correlato alla sua spesso rabbiosa rivendicazione. Ma dietro al sottotitolo enough not enough, che ha contraddistinto questa edizione, ci sta di più: c’è l’esistenza di un mondo dalle evidenti storture che non si possono più accettare.
Sono state soprattutto le creazioni di danza con un* sol* performer in scena ad aver attraversato il nostro sguardo in questo inizio di festival, una danza sempre destrutturata, spesso difficile anche da decifrare, ma nella quale sempre è possibile scorgere un fuoco nascosto che ha bisogno di essere liberato.
Ciò succede per esempio nel significativo “Cullass Spring”, dove la canadese Dana Michel libera tutta la sua potente corporeità, tra maschile e femminile, devastando letteralmente lo spazio del suo agire, circondato da ogni parte dal pubblico, portandosi via con una semplice forchetta tutto quello che la scena ordinatamente conteneva e interagendo ferocemente con gli oggetti che via via scopriamo presenti nello svolgersi della performance.
Destrutturare in modo sapiente per rivendicare la propria natura. Due artiste brasiliane si muovono in questo senso: Catol Texeira in “Clashes Licking”, ispirandosi alla famosa coreografia di Vaclav Nijinsky “L’après-midi d’un faune”, su musica di Claude Debussy, e Ana Pi in “Divine Cypher” trasportandoci nell’atmosfera dei balli tradizionali di Haiti.
“Blackmilk”, del danzatore e coreografo sudafricano Tiran Willemse, è invece la prima parte di una trilogia dedicata alle “Trompoppies”, le majorettes che marciano in uniforme nelle brass band, ma, nella inesausta vitalità del movimento che ci fa amare il performer, ci sono anche i gesti melodrammatici delle dive d’opera che qui si mescolano con il rap nero.
L’identità ritorna anche con “Workpiece”, esibizione dell’artista di origine lituana Anna-Marija Adomaityte che, vestita come una dipendente di McDonald’s, ci fa assaporare la ripetitività quotidiana di un lavoro defatigante che l’ha sfiancata per anni. E lo fa su un semplice tapis roulant, omaggiando anche il Chaplin di “Tempi moderni”, accompagnata dai suoni ossessivi di Gautier Teuscher.
Negli spazi dell’ex carcere della città romagnola, in un luogo ancora scalfito da chi vi è stato rinchiuso, ecco poi il palestinese Basel Zaraa. L’esemplificazione della propria identità qui si fa dolorosamente presente attraverso semplici oggetti che uno spettatore alla volta trova in una stanza disadorna, nascosti in un cassetto. Con l’ausilio delle parole ascoltate in cuffia, l’artista racconta alla piccola Leila le esperienze della sua famiglia nel campo profughi palestinese di Yarmouk, a Damasco, dove è nato nel 1985. Davanti a noi emergono, attraverso il suo ricordo, e impastandosi con la nostra commozione, la riproduzione della sua casa andata distrutta e le fotografie di diverse generazioni di palestinesi a cui, con forza, è stata rapinata la propria terra. Uno spettacolo intenso che fa vacillare il nostro cuore.
Il corpo minuto, particolarissimo, di Chiara Bersani, che abbiamo visto già tante volte in scena, questa volta è nel suggestivo spazio del podere Acerboli, un grande campo da cui si vede in lontananza San Marino. Un corpo che, al calar del sole, diventa splendente incontrando quello di Elena Sgarbossa, mentre Lemmo li accompagna dal vivo con musica e suoni che fanno rimbombare l’anima.
Alla fine della performance site specific “(nel sottobosco)” tre carrozzine entrano in scena, riempiendo di altri corpi lo spazio. E, come in un quadro di Friedrich, tutti e tutte, girati di spalle, osservano con noi l’infinito.
Al teatro Petrella si esibisce infine una performer a due facce, il tedesco Julian Hetzel, sotto la cui maschera si cela la sudafricana Ntando Cele. Sono loro i protagonisti della presentazione al pubblico di “SPAfrica”, un progetto che intende esportare barili d’acqua, in forma di lacrime, dall’Africa in Europa, dove sono state versate e raccolte, così da ricambiare in modo sarcastico la colpa (durata migliaia di anni) che ha visto innumerevoli soprusi compiuti dal mondo occidentale. Almeno questa volta, invece, lo scambio è in empatia. La performance, che inizia come un talk/intervista, alla fine diventerà una beffarda e sarcastica sfida contro il persistente razzismo che ancora alberga in Europa.
Sono tutti spettacoli sorprendenti quelli scelti per le prime tre giornate del festival, a volte di difficile comprensione, che tuttavia ci donano sguardi inesplorati che solo Santarcangelo ha la capacità di regalarci.