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Scene di violenza coniugale. Elena Serra nelle crudeltà di Watkins (e nelle nostre)

Annamaria Troisi e Aron Tewelde (Photo: Luigi De Palma)

Annamaria Troisi e Aron Tewelde (Photo: Luigi De Palma)

Inauguravamo con le parole tratte dal “Mago di Oz” di L. Frank Baum, (“Per piccina ch’essa sia, nessun posto è bello come casa mia”) la prima puntata della nostra indagine sabauda, ignari di quanto sarebbe avvenuto di lì a pochi giorni. Ed è proprio in momenti come questo che appare più che mai opportuno ripeterle, quelle parole. Come un mantra: io resto a casa, io resto a casa…

E mentre il teatro italiano è in sofferenza, noi qui siamo chiamati a “giudicare” qualcosa. Che cosa, vi domanderete? Semplicemente l’histoire véritable – come direbbe il buon Diderot, padre di drammoni borghesi – di due donne comuni. Comuni sì, eppure estremamente straordinarie, due donne che dalle proprie case avrebbero dovuto, forse, fuggire.
Stiamo parlando di Annie e Rachida, a cui Clio Cipolletta e Annamaria Troisi, accompagnate dagli altrettanto intensi Roberto Corradino e Aron Tewelde (subentrato ad Alberto Malanchino), prestano voce e volto, nelle strazianti “Scene di violenza coniugale” che hanno calcato l’insolito palco della Galleria Franco Noero a fine gennaio, per la stagione del Teatro Stabile di Torino. Ecco allora che i ricordi, le visioni occorse – che hanno preteso un giusto tempo per depositarsi nella mente di chi scrive – si fanno ora più nitidi.

Uno spettacolo lacerante, sinceramente crudele, a tratti caustico, quello diretto da Elena Serra, che ha saputo tuttavia mescolare nell’impasto drammaturgico quella levità a tratti onirica che caratterizza da sempre il suo modus pingendi. Alla “regia immersiva” fa da supporto un testo, come quello dell’artista anglo-francese Gérard Watkins, che – recita il foglio di sala – «incide senza pietà la carne viva delle dinamiche di coppia, dove le donne sono vittime designate». E la traduzione di Monica Capuani gli rende del tutto giustizia.

L’opera comincia in realtà ben prima del fischio d’inizio, fin dall’ingresso in sala degli spettatori, un gruppo ristretto di eletti che sembra essere selezionato, scelto per la macabra occasione, in pieno stile da “teatro da camera”. La regista ci fa così accomodare lungo le pareti, per assistere al rito misogino, al quotidiano sacrificio femminile – mi sposta, invero, dalla mia originale ubicazione, offrendomi una visione grandangolare ben più eccitante e voyeuristica, in prossimità di uno dei quattro spigoli dello stanzone.
Le porte sono ovunque e, come nella “Locandiera” di Goldoni, presagiscono l’aggressione da parte di forze esterne di quel rasserenante e quieto spazio d’interno, un appartamento (non più connotato geograficamente) di gusto rococò, trapunto di stucchi, specchi e mobilio di design, nel quale si incrociano le vicende di due coppie di diversa estrazione sociale. I fili diegetici si dipanano, si sovrappongono, talvolta si toccano, si mescolano, perché altrimenti il flusso di azioni non sarebbe affatto credibile. E di qui discende la strada dell’immedesimazione e della catarsi.

Liam (Aron Tewelde), ex bullo di periferia, è in fuga da un’infanzia violenta e cerca riscatto nei sobborghi; qui incontra Rachida (Annamaria Troisi), che desidera emanciparsi dai rigidi codici sociali e dall’oppressione della propria famiglia. Da parte sua, Annie (Clio Cipolletta), svampita e remissiva, è una ragazza madre alla ricerca di un lavoro per rimettersi in carreggiata. Un giorno si imbatte per caso in Pascal (Roberto Corradino), un fotografo benestante, la cui carriera sta andando però in rovina. Le porte, dietro le quali i protagonisti si nascondono, scompaiono, gridano, assolvono a un’evidente funzione metaforica: disegnano lo spazio dell’invisibile, vagheggiato e insieme temuto (come nelle antiche tragedie, in cui l’elemento più crudo era sempre sottratto alla vista degli spettatori). Se l’universo drammatico non è più “figurato in breve carta” ad accrescersi sarà non il nulla, ma l’immaginazione, fervida e angosciata. Le porte sono attraversate, socchiuse, spesso sforzate (nel senso carnale di “violentate”).

Gli interpreti di questo Atto finale – l’aggettivo è da intendersi proprio nell’accezione di “definitivo, ineluttabile” – sono tutti bravissimi, commoventi, interamente adesi al proprio carattere. A loro si aggiunge, a metà circa del tourbillon, la regista in veste di “locandiera” (Agnes), la quale, pur gravata da un dolce peso sul ventre, sa bene come innescare delle dinamiche mortifere. Sviluppando allora la provocazione lanciata da Andrea Porcheddu («lo spettatore agisce ma non interviene: tanto è teatro, tanto è una finzione, tanto è un gioco. Ma fuori da quella stanza, che avremmo fatto?») arriviamo a dire che l’intero dramma è forse una sorta di redivivo Esperimento Milgram, variante 4: il soggetto di studio (il pubblico) può vedere e sentire la vittima (l’attore), ma sceglie comunque di vederlo collassare.

Una grande prova, queste “Scene”, delle nostre più grigie e banali crudeltà.

Doverosi applausi, sia pur in coda, a Jacopo Valsania per lo spazio scenico e ad Alessio Foglia per il progetto sonoro.

La fotogallery di Lugi De Palma

SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE
di Gérard Watkins
traduzione Monica Capuani
con Roberto Corradino, Clio Cipolletta, Aron Tewelde, Annamaria Troisi, Elena Serra
regia Elena Serra
spazio scenico Jacopo Valsania
progetto sonoro Alessio Foglia
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro di Dioniso
PAV con il supporto della Fondazione nuovi mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea nell’ambito di fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders

durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 5′ 12”

Visto a Torino, Gallerina F. Noero, il 31 gennaio 2020

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