L’essenziale negato. Scuola e cultura italiane dopo il Covid

Pinocchio illustrato da Carlo Chiostri
— Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola

I.
«Se ritenete l’arte e la musica inutili, immaginate che cosa sarebbe la vostra quarantena senza canzoni, libri, film, ecc». Se sono parole familiari, è perché probabilmente vi sarà capitato di leggerle sugli imbellettati social alla ricerca di un senso “in tempo di pandemia”, come si dice. Un discorso simile connota l’arte come riempimento del vuoto, l’eccezionale vuoto dell’epidemia, il risultato è che ne esce tutt’altro che indispensabile. Quando la vita tornerà a riempirsi di altre cose, più importanti, si potrà magari farne a meno.
D’altronde nel falso problema dell’“utile” è caduto pure Stefano Massini nella sua virale (si può ancora dire?) allocuzione su La7, dal titolo proprio «Io non sono inutile!».

Sempre sui social, circola un secondo slogan, a prima vista più convincente, che recita: «La poeticizzazione della quarantena è un privilegio di classe». Ciò è condivisibile solo se assumiamo come vere due condizioni, integrate l’una con l’altra o, a piacere, alternative. La prima: che alla poesia le classi povere non possono accedere poiché essa vivrebbe di tempi morti e pance piene, uno stato che con la vita degli ultimi non ha niente a che fare – e questo consuona con quanto detto poco sopra. Ci sono in effetti vite (non sempre di povera gente, peraltro) così impegnate nel lavoro, che la fruizione artistica non trova letteralmente tempo di essere.
La seconda condizione è che “poeticizzazione” voglia dire sdrammatizzazione, falsificazione, alleggerimento, e che arte o poesia siano sinonimi di fantasticherie senza peso; non lettura, interpretazione della realtà con strumenti “altri”, “alti” eppure eminentemente nelle cose, dentro la vita di tutti, pertinenti a essa, ma, nuovamente, fumosità quasi arcadiche.
«Professore, lei fa poesia», diceva a Silvio Orlando il preside del film “La scuola” di Luchetti, intendendo «lei dice cose fantasiose, risibili». Parrebbe che agli occhi dei più la cultura e l’arte, dopo essere state per secoli mete ambite dagli uomini, e dopo aver collezionato le più strazianti conquiste di verità di cui possiamo disporre oggi, si siano risvegliate degradate a lussi vani e/o bamboleggiamenti.

Ma torniamo sui social e facciamo un esperimento.
Frugate nella vostra friendlist, fate un salto nel passato (e nell’ignoto): curiosate il profilo di qualche vostro amico Facebook di vecchissima data, che rigorosamente non sia attore, critico, poeta, cantante, insomma qualcuno con cui siate venuti in contatto per questioni legate all’involontarietà, di parentela o di frequentazioni scolastiche, magari alle scuole medie: un conoscente di quando facevate nuoto. Scorrete la sua bacheca, e soppesate l’importanza che ha per lui il problema dell’arte, della poesia e dello spettacolo dal vivo prima del Covid e in prospettiva dopo. Ci scommetto: nessuna.
E se pure servisse una conferma più ufficiale, meno legata alla propria bolla sociale, sfogliate i quotidiani: quanto spazio è dedicato, pur in riferimento al tragico tema, a queste questioni? Persino in molte delle “infografiche” che prospettano le varie fasi, 2 e 3, si sono dimenticati di piazzare da qualche parte il fardello di cinema e teatri, con l’insofferenza riservata a ben noti questuanti o, che è peggio, per pura dimenticanza. Il silenzio di Giuseppe Conte ieri, su questo, è stato evidente (ma, di nuovo, solo agli occhi degli addetti ai lavori).

Sia l’una o l’altra cosa, vogliamo, una volta per tutte, prendere coscienza di questa condizione di subalternità, di insussistenza, di non-incidenza dell’arte nel discorso del Paese? Nonostante le continue, stucchevoli filippiche sull’Italia delle bellezze, essa ha rimosso il valore vero della cultura – ammesso che l’abbia mai considerato, senza condizionamenti utilitaristici (vedi come ti torna indietro, l’“utile”?), politici, clientelistici. Sono pronto a scommettere che, se tutte le attività culturali fossero falciate per sempre dal campo delle nostre città, nessuno, tranne i più barricaderi d’indole fra i lavoratori del settore, alzerebbe un dito. Operatori culturali, critici, artisti, vogliamo ammetterlo che quando gettiamo sguardi urgenti, dolenti, siamo sempre noi a ricambiare quegli sguardi, a sentirci morire?
L’impressione drammatica è che la stragrande maggioranza di chi dice che l’arte è indispensabile alla vita, o lo dichiara alla leggera, come una presa di posizione del tutto ideale, nostalgica quasi, o pensa alla propria vita e, ahimé, alla propria arte.

Eppure non può esserne questa la missione, non può essere così meschinamente appartata, acciambellata su sé stessa, ridotta a una sopravvivenza autofaga, senza proiezione verso il fuori, verso l’altro, verso chi ancora non ci sta dentro e non la capisce. Come si fa a pensare di uscire da quest’angolo in cui ci si è ritrovati stretti rivendicandone uno statuto intimo e personalistico? I ricordi di un concerto in cui si cantava a squarciagola, la bellezza che salva il mondo, tutto questo appiccicoso repertorio di piagnistei e sogni d’oro adolescenziali – come se poi fosse possibile salvarsi. Suona come la travolgente pubblicità di un deodorante.

Ci siamo. Torniamo a dire che cos’è l’arte e che cos’è la poesia, con un po’ di coraggio.
La cultura umanistica, l’arte, non servono a rendere più sopportabile la vita – anche se fortuitamente ciò a volte capita. Esse servono a comprenderla, a darle senso; non sono utili, sono essenziali (che non è un grado in più della stessa scala di aggettivi; è una condizione radicalmente diversa). Nutrendosi dei nostri giorni, vivendo di quel materiale anche quando le si rovescia contro, l’arte rende possibile che di vita si parli, e che di questo presente qualcuno possa dire che è stato, ed è stato in un modo o in un altro. Senza l’arte non c’è coscienza, non c’è aderenza né persistenza di sguardo sulla vita; e senza sguardo non c’è testimonianza, non c’è interpretazione, non c’è nemmeno più la stessa vita.

II.
Un appello diverso, sempre accorato ma di più soda materia è quello lanciato sulle pagine di Minima&moralia da Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due, citando la bella lettera di Marco Baliani sul suo sito personale, riconoscono il fondamentale statuto dell’arte con queste parole:
«L’arte, in tempi normali, è fondamentale quanto un ospedale. In tempi eccezionali come questi di sicuro è giusto che ci siano altre priorità, la salute dei nostri corpi, ma l’arte deve continuare a esistere perché è un presidio di pensiero, di riflessione e conoscenza: “L’artista è una bandiera, un simbolo vivente di un’intera società”, ha scritto Marco Baliani in una lettera recente dalla quarantena, “La rappresenta e interroga in ogni istante meglio, a volte, di come fa la politica o la filosofia”».
Poi, rivolti al presente, lamentano qualcosa di terribile e ovvio: che non c’è un piano. Se è vero, come si è letto (o intra-letto, considerata la vaghezza tenuta dalle istituzioni su questi temi) e come rimane anche intuitivo, che le sale da concerto e teatrali saranno le ultime a tornare in attività, è anche vero che a tutti coloro che vi lavorano non si fornisce altra prospettiva che aspettare, incassare, se va bene, 600 euro (ma leggete a tal proposito, sulle stesse pagine, il grido di Gaetano Ventriglia: quanti ne restano fuori!), stringere denti e cinghia prima che tutto torni così com’era – ammesso che per allora ci siano ancora pantaloni da adattare e denti in bocca.
L’appello continua così: «Non si può liberisticamente scaricare l’intera responsabilità di trovare soluzioni alle capacità di reazione ed inventiva del singolo, dell’artista, tanto più in un momento come questo in cui ogni settore economico necessita, a ragione, del sostegno pubblico. Occorre un pensiero che possa immaginare come traghettare gli artisti, chi fa questo lavoro delicato, verso il “dopo”».

Già. Il dopo.
Alla lettera di Frosini e Timpano risponde tra gli altri Marzia Ercolani, che parlando del “prima” mette sul campo alcuni indizi utili per interrogarci proprio sul dopo. Entra finalmente in campo il «grande assente: il pubblico. Come si è posto il pubblico italiano nei confronti delle arti performative fino ad un mese fa? A parte una piccola nicchia di appassionat* e di fruitori/ici costanti, in Italia il pubblico non ci sosterrà perché già non ci sosteneva prima».

Se il teatro, la letteratura, le arti figurative, la musica di ricerca danno vita alla vita, giustificano il presente, perché il pubblico se ne disinteressa? Perché è lontano, perché lo ritiene trascurabile? Perché quegli sguardi spersi tra i soli operatori? È colpa di Netflix? È solo il sistema culturale che non sa fare il suo lavoro, o c’è dell’altro?

III
Scendiamo nella storia del nostro Paese e tagliamo corto. Se è vero, come si diceva, che la poeticizzazione è un «privilegio», se non di classe di pochi, e per poesia non si intende “distrazione”, ma movimento di analisi verso l’alto, perché allora quel momento biografico della vita di ciascuno in cui in Italia, grazie alla scuola pubblica, gratuita, aperta a tutti, le differenze sociali e culturali potrebbero essere azzerate, non è sfruttato a questo scopo?
Quand’è stato che la scolarizzazione di massa ha mancato l’appuntamento con la sua più grande occasione storica, quella di portare quei pochi frutti condivisibili delle deprecabili epoche che ci hanno preceduti alla portata di tutta la popolazione, finalmente “libera”? L’occasione di far sì che la cultura, l’arte, la poesia fossero parte integrante, caratterizzante della vita quotidiana della nazione? Perché ciò è successo, in ottemperanza a quale progetto implicito? Non si sarà mica creduto che sarebbe stato il libero mercato a incaricarsene?

Non sono ovviamente l’unico ad aver intravisto che il problema della cultura, e dunque il problema del pubblico (o della partecipazione) e quello della scuola sono lo stesso problema. Alessandro Bollo su AgCult.it immagina pragmaticamente, ma in maniera un po’ asfittica, un settore culturale dedito nella ripartenza a produrre materiali per la didattica a distanza, attività senz’altro degna, ma che rischia di consumarsi in routine e di abdicare alla ricerca, alla proiezione della scuola verso la cultura, facendone esclusivamente un recettore passivo.
Anche Simone Derai di Anagoor, rispondendo alle domande di Enrico Pastore su Il Pickwick, dichiara con grande empito questa connessione (e d’altronde la sua compagnia è nata proprio da un simile felice incontro), e il suo sguardo è così acuto e giusto che merita una citazione abbondante.
«Quello che servirebbe è, dunque, una politica di lungimiranza, più luminosa, più rivolta al futuro, meno medievale, meno sulla difensiva.[…] Serve che abbandoniamo l’idea di controllare il giudizio del pubblico. Serve che abbandoniamo l’arroganza del credere cosa siano o non siano in grado di recepire i nostri concittadini, l’arroganza di sapere cosa sia giusto o non giusto per loro, e fare proposte, fare proposte, fare proposte. Serve che si stimolino i bambini ad uscire dalla protezione in cui vivono e non si trattino i ragazzi come mandrie di bestie bolse quando sono affamati di esperire nuovi linguaggi. Serve sovvertire il rapporto tra teatro e università: aprirlo. Serve tanta più danza e canto. Non solo musica da ascolto, ma proprio pratica del canto corale polifonico. Serve che i cittadini si uniscano in coro a cantare, enormi cori cittadini. Serve che abbandoniamo l’abitudine delle sale utilizzate in modo convenzionale, serve che il teatro (edificio) si spalanchi e smetta di chiudersi in una forma: il teatro è l’arte più aperta di tutte, quella più elastica, ad essa non possono corrispondere strutture architettoniche e organizzative eccessivamente rigide».

La soluzione a una scuola sempre meno efficace non nelle classifiche OCSE-PISA ma nella società, non è nelle modalità lambiccate, cabalistiche di reclutamento degli insegnanti, nella pseudoformazione tecnicistica e penosamente ripetitiva, umiliante, a suon di slide copiate e ridigerite, sempre sugli stessi quattro rachitici argomenti, nelle “competenze”, superate e obliterate in mezzo mondo ma ancora in fase di arrancante attuazione nei curricoli dei nostri istituti, negli indegni copia-incolla delle programmazioni/progettazioni di classe in classe e da scuola a scuola, nella vorace fame di acronimi à la page dentro cui nascondere gli scheletri di operazioni standardizzate e replicabili.
La soluzione non è nelle classi chiuse, aperte solo sui protettivi, rassicuranti schermi dei tablet o strette attorno alla luce delle scariche lampade da LIM, giù le tapparelle, scuole straziate nei gineprai di autorizzazioni, liberatorie, certificazioni, sfigurate dalle griglie di osservazione e dalla docimologia tecnicistica e masturbatoria di scuola angloamericana. Tutti tentativi, questi, di rassicurare e rassicurarci quando non c’è niente da star sicuri, c’è da buttarsi nel mondo a capofitto.
Il ruolo della scuola è accompagnare alla realtà, quella realtà che la musica, l’arte, il teatro, la poesia hanno saputo e sanno leggere e proporre.
Ecco perché, se davvero vogliamo sfruttare la pur macabra occasione del Covid-19, dobbiamo riconoscere che scuola e cultura devono ripartire insieme.

Il far musica di cui parla Derai, il far teatro, entrare e uscire dalle sale, dalle aule, dalle palestre con le classi, con gli alunni, la loro riconfigurazione in gruppi attivi che si scontrino con le realtà dell’interpretazione (nel doppio senso dell’incarnarsi più o meno empatico e del capire le ragioni), della messa in atto di processi spinti anche all’estremo, dell’uso cosciente delle proprie convinzioni in un agone pubblico, fisico, intellettuale, persino sentimentale, è un tipo di scuola che esce nel mondo e non si illude di poterne portare gracili miniature entro le sue mura. In quali misure, con quali strumenti di collaborazione tra enti, compagnie, musei e istituti, con quale bilanciamento di attività diverse e di trasmissione di cardini epistemologici e abilità di base, con quali configurazioni orarie, economiche, è tutto da studiare e da equilibrare.

È questa la scuola di cui la cultura ha bisogno per crescere nel coraggio di proporsi a tutti e per far germogliare un pubblico autentico, affamato, che sappia starle accanto sempre, non come un obbligo di coscienza, ma in quanto necessità organica; questa è la cultura viva di cui la scuola ha bisogno per condurre i giovani nel mondo, per capire che scrivere, rappresentare la realtà significa capirla, possederla, cambiarla, esserci dentro per davvero, osare persino spingerla più in là o trovare la forza di rifiutarla e allontanarsene. Solo queste sono la scuola e la cultura di cui abbiamo bisogno.

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