Se ci fosse luce. Francesca Garolla e l’omicidio Moro, tra responsabilità individuale e collettiva

Photo: Luca Del Pia
Photo: Luca Del Pia

In prima nazionale al Teatro delle Moline di Bologna la terza parte della trilogia sulla libertà dell’autrice e regista milanese

L’autrice milanese Francesca Garolla cura per la prima volta la regia di un suo testo teatrale, “Se ci fosse luce”, parte di una trilogia che indaga il tema della libertà da punti di vista differenti.
Klp aveva seguito, nel 2018 a Milano, il primo capitolo, “Tu es libre”, con la regia di Renzo Martinelli. Ora la curiosità di saggiare come procedesse il percorso di quest’artista così poliedrica, che ha lavorato per anni come dramaturg, attrice, regista (ma sinora sempre su testi di altri) e anche come autrice, presso il Teatro i di Milano, di cui è stata socia fino alla sua recente chiusura.

Da qualche anno il suo potenziale creativo sta convergendo sempre più nella scrittura per il teatro, trovando in Francia, grazie ad un sistema di residenze creative, un tempo e un luogo per dedicarsi in toto alla fase di ricerca, ideazione e stesura dei propri testi.
I primi capitoli della trilogia, “Tu es libre” e “Per la vita”, sono stati infatti realizzati col sostegno de La Chartreuse – Centre National des écritures du spectacle. Il primo spettacolo, che tratta il tema della libertà di scelta, aveva debuttato nel 2017 al FIT Festival di Lugano; mentre il secondo, sul tema della libertà che noi stessi ci neghiamo, non ha ancora calcato le scene e verrà presentato a maggio, sotto forma di studio.
Il terzo capitolo, nato grazie al sostegno della Cité Internationale des Arts di Parigi, durante una residenza di tre mesi, indaga invece le conseguenze di un’azione violenta compiuta consapevolmente, per arrivare a confrontarsi col tema della responsabilità individuale e collettiva. E per farlo parte dal sequestro e dal successivo omicidio di Aldo Moro.

Coprodotto dal LAC Lugano Arte e Cultura e da ERT/ Teatro Nazionale, “Se ci fosse luce” fa il suo debutto presso il Teatro delle Moline di Bologna, dove la sera della prima troviamo – inaspettatamente – un folto pubblico di adolescenti, forse accompagnati da docenti. Ma sarebbe un errore etichettare “Se ci fosse luce” come uno spettacolo “didattico”, per quanto a tratti lo potrebbe sembrare, per esempio nei momenti in cui gli attori si rivolgono direttamente al pubblico, oppure quando viene proiettata una delle foto più celebri del ritrovamento di Moro (scattata dal giornalista Rolando Fava), mettendola a confronto con la “Crocifissione di San Pietro” di Michelangelo.

L’ultima telefonata delle Brigate Rosse, avvenuta il 9 maggio 1978 alle ore 12:13, tra il brigatista Valerio Morucci e Francesco Tritto (amico e collaboratore dello statista scomparso) costituisce il punto di partenza da cui prende avvio il testo.
Il sequestro di Moro, il ritrovamento del suo cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani a Roma, e tutto ciò che ne seguì – le indagini, i processi – entrano nello spettacolo come rimando, riferimento, citazione… Il testo non intende riproporre una ricostruzione storica degli eventi, come racconta la stessa regista: “Esiste già molta letteratura in merito, e io non volevo mettere in scena dei personaggi storici”.

Quel che emerge è piuttosto un approccio etico, esistenziale, umano, filosofico, senza retorica né moralismi. Lo spettacolo avrebbe potuto trattare di un qualsiasi altro evento traumatico nella storia di qualsiasi altro Paese. Il terrorismo è terrorismo. E la forza del testo risiede nel suo carattere di universalità.
Il punto di vista offerto da Garolla sulla vicenda incarna quello delle generazioni successive, che pur non avendo vissuto quel determinato periodo storico ne hanno comunque ereditato il peso.

“Se ci fosse luce” inizia con un’attrice che installa un vecchio proiettore, i clack delle diapositive rompono il silenzio, mentre il pubblico legge le proiezioni: sono le note dell’autrice che introduce la visione, affinché il pubblico ricordi che quelle che potrebbero apparire come storie personali, azioni individuali, in realtà hanno conseguenze molto più estese, che ricadranno inevitabilmente sulle generazioni future.
Il proiettore si spegne ed entrano gli altri attori, in abiti formali. La donna li invita ad ascoltare uno scritto, un dialogo un po’ enigmatico tra la voce di Dio ed un uomo, una sorta di parabola sull’oscurità della Storia. Al termine della registrazione, le due donne si lanciano uno sguardo di complicità e decidono d’iniziare.

Il testo gioca volutamente e con ambiguità sull’identità dei personaggi, che non vengono mai dichiarate apertamente, lasciando al pubblico alcuni “indizi” disseminati tra le battute, per orientarsi.
Le donne interpretano le figlie delle vittime, col passare del tempo divenute donne. Le figure maschili interpretano il ruolo dei colpevoli, che dopo tanti anni si sono fatti anziani.
Nel primo quadro la donna più giovane (interpretata con freschezza da Anahì Traversi) è in cerca d’ispirazione per scrivere un romanzo. Mossa dall’urgenza di capire quali furono le emozioni provate da Tritto e da Morucci nel corso di quella terribile telefonata, interroga un latitante (l’affascinante Paolo Lorimer), a cui mancano un paio di mesi per raggiungere la prescrizione.
La donna registra l’intervista con un vecchio mangiacassette, ma non trova nel latitante la collaborazione che sperava, né qualche sfumatura di rimorso o pentimento. D’altro canto per l’uomo, ancora fortemente attaccato ai suoi ideali marxisti, sarebbe futile interrogarsi sulle proprie azioni di fronte all’ineluttabilità della Storia.
Il secondo dialogo invece parte dall’esigenza dell’assassino (un Giovanni Crippa pacatamente affranto) di spiegare le proprie ragioni alla figlia dell’uomo che ha ucciso. L’assassino dichiara di volersi assumere l’intera responsabilità delle proprie azioni, intraprese per libera scelta. Ma la donna, che fa la giudice (interpretata con fermezza e razionalità da Angela Dematté, che tenta di nascondere le sue fragilità per poi esplodere all’improvviso), non vuole sentire ragioni, e difende in maniera categorica la morte simbolica del padre: una morte designata, un omicidio politico, la cui responsabilità collettiva non può ricadere unicamente sull’ultimo anello di una lunga catena, colui che ha premuto il grilletto.

Il testo, lungi dal proporre una trama lineare, si articola attraverso quadri a sé stanti, dialoghi e monologhi in cui i personaggi si confrontano, riflettono, ricordano, ognuno dalla propria angolazione. Ogni accadimento avviene sotto agli occhi di tutti, in una sorta di lettura a tavolino in cui gli attori interpretano il testo da seduti. Il tavolo, lungo ed imponente, è in alluminio, un materiale freddo ed asettico, che richiama al contempo una sala degli interrogatori, un obitorio e la cella di un carcere.
Gli attori stabiliscono con questo elemento una relazione tattile e sonora che si lega in maniera stringente con la parola detta. Ogni volta che toccano la superficie del tavolo, un accurato sistema di microfoni amplifica i rumori che fanno da contrappunto al testo.
Rare le azioni, eseguite in maniera simbolica. Solo a chiusura dello spettacolo Anahì Traversi si concederà un ballo liberatorio, caotico e sfrenato, attraverso cui sfogare un pathos a lungo trattenuto.
Ed è proprio in quel momento che il pubblico, fino a lì in qualche modo osservatore esterno dello spettacolo, improvvisamente si sente afferrare da quel corpo in movimento, rivivendo in pochi istanti le emozioni che emergono.
Uscendo da teatro, la sensazione è di aver fatto i conti con una parte della nostra esistenza di cui è giunto il momento di liberarsi.

Se ci fosse luce
testo e regia Francesca Garolla
con (in ordine alfabetico): Giovanni Crippa, Angela Dematté, Paolo Lorimer, Anahì Traversi
scene: Davide Signorini
costumi: Margherita Platé
disegno luci: Luigi Biondi
suono: Emanuele Pontecorvo
assistente alla regia: Francesca Merli
direttore di scena e datore luci: Marco Grisa
fonici: Emanuele Pontecorvo, Antonello Ruzzini
sarta di scena: Margherita Platé
produzione: LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
partner di ricerca: Clinica Luganese Moncucco

Durata: 1 h 50′
Applausi: 2′

Visto a Bologna, Teatro delle Moline, il 28 marzo 2023
Prima Nazionale

 

 

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