È appena nato un festival, e già i suoi genitori gli preparano il futuro. Il babbo e la mamma, Davide Sacco e Ilaria Ceci, non dimenticano però cosa significhi anche essere piccoli, appena nati, vivere l’infanzia a pieno. Ecco perché il sottotitolo per l’edizione uno di Narni Città Teatro è: Nascita.
I primi frutti già ci sono, bisogna essere contenti, tre giorni, dal 2 al 4 ottobre scorsi, densi di spettacoli, dalla mattina (con l’originale alba di Moni Ovadia sullo sfondo del sole nascente in un cielo travagliato di nubi) alla sera tarda – gli ultimi sipari nel teatro Manini si aprono alle 22,30.
Ma continuando anche solo a puntare il microscopio sul nome della manifestazione, un altro punto è chiaro, oltre all’amore nel quale queste serate e questo progetto sono nati, e cioè che la città, il territorio sono centrali nel progetto degli organizzatori.
Questa attenzione alla dimensione locale, alle dinamiche tra festival che già vi insistono, e a quelle tra essi e gli enti locali, gli spazi, le associazioni, le infrastrutture, sono stati affrontati nel convegno impaginato da Stefano Romagnoli con organizzatori e direttori artistici (per citarne due, Linda Di Pietro dell’indimenticabile Terni Festival ed Emiliano Pergolari, curatore presso Centro Residenze Umbre C.U.R.A).
Ed è stata come la prima visita, per il neonato, di parenti e cugini più grandicelli.
Venendo al programma, la vocazione ecumenica del gruppo alla testa anche del Lunga Vita Festival, a Roma dal 2017 al 2020, è riconoscibile.
Dal teatro contemporaneo più noto e premiato di Alessandro Serra ed Emma Dante, alla danza, con il gruppo guidato da Antonella Perazzo, a nomi di richiamo come Elio Germano, alla stand-up comedy all’americana dell’aspro Giorgio Montanini, alla tradizione rassicurante del racconto di Moni Ovadia, alla musica, fino alla memoria del territorio attraverso i racconti degli anziani, ai piccoli interessanti esperimenti drammaturgici in bozzolo come l’interattivo “Rapimenti” di Raffaele La Pegna, alla riproposizione di lavori capitali, come il “Mistero Buffo” di Fo nel corpo di Matthias Martelli. E altro ancora.
Uno dei punti di maggiore attrazione della rassegna è stata la trilogia “Se questo è Levi”, di Fanny & Alexander, premiato con il premio speciale Ubu per il progetto e con un secondo riconoscimento per il miglior attore under 35 ad Andrea Argentieri, unico interprete.
I tre momenti dello spettacolo occupano buona parte della giornata del 3 ottobre, fungendo da fulcro dell’intero festival: il primo, “Se questo è un uomo”, si tiene in una sala rossa soprastante il teatro Comunale; il secondo, “Il sistema periodico”, nell’auditorium Bortolotti, nel mirabile complesso di San Domenico; il terzo, “I sommersi e i salvati”, nella sala consiliare del Comune, con i suoi scranni tutt’attorno.
La drammaturgia dei tre momenti presenta qualche differenza: nel primo, Argentieri, che veste (e vedremo come) i panni dello scrittore, risponde a un’intervista; nel secondo parla al pubblico in una sorta di monologo; nel terzo risponde a domande prestampate che gli stessi spettatori possono rivolgergli.
Tutte le parole che l’attore pronuncia sono state letteralmente dette da Primo Levi, ed egli infatti le ascolta in cuffia, secondo la pratica dell’eterodirezione, cioè l’ascolto in cuffia del testo, replicandole poi per il pubblico con la sua viva voce.
Il tessuto del testo detto è dunque contemporaneamente accurato e relativamente semplice, ed è nel fino del lavoro di cucitura dei documenti che andrebbe studiato più dettagliatamente.
Così come nell’opera del torinese, per la quale a ogni scostamento dal tema della deportazione corrispose sempre un ritorno quasi pendolare, sia sotto forma narrativa che analitica, così anche nelle tre performance l’argomento lager è frequente, e ha il movimento di una risacca che pare allontanarsi solo per prepararsi a ritornare.
Anche la scelta di concentrare il primo e il terzo capitolo principalmente sopra i libri sulla Shoah, intervallati da una sezione parzialmente altra, dà conto di questo necessario, inesausto movimento della memoria, e sembra fare il paio con l’oscillazione biografico-professionale tra il Levi scrittore e il Levi chimico, più volte richiamata.
Ma al di là del contenuto, sempre alto, delle parole pronunciate, il più imponente centro del testo-spettacolo, della scena, è il piccolo corpo di questo pseudo-Levi, l’attore vestito e truccato come lui, che ne riporta al pubblico le parole, ricalcate sulla voce udita in cuffia. Un corpo che ispira insieme soggezione e ammirazione. Gli spettatori comprensibilmente stupiscono, infatti: «È identico!», «È lui!».
È lui. La pacatezza degli atteggiamenti è la sua, suo è il garbato accento torinese, riprodotto nel dettaglio con tutte le sue pause, le sue agogiche e le riformulazioni del pensiero, sua la barba, suoi persino gli occhiali. Tutto lui, penso anch’io, e però un fastidio quasi punge lo spettatore di fronte a questo alter ego che a tratti inquieta – finché non noto un dettaglio: i capelli. Primo Levi esibiva un’ampia fronte, negli anni progressivamente sempre più libera dai capelli, che corti, neri e poi grigi, poco per volta si ritiravano sulla nuca. Era stempiato, insomma, di una stempiatura lineare, regolare.
I capelli di Argentieri partono invece ben più avanti e, pettinati all’indietro, sentono il bisogno di essere fissati con la gelatina per accomodarsi a quella vecchia foggia. Anzi, ad essa un po’ ribelli, un po’ troppo lunghi per essere del tutto proni all’acconciatura, scendono leggermente sul collo, sfrangiati.
In un universo significante come quello della finzione mimetica, in cui ogni elemento sa di dover essere estremamente, completamente semantico, non può sfuggire questo dettaglio. Che poi è lo stretto passaggio verso un’altra non-coincidenza, impossibile da non notare: Primo Levi era, nell’immagine che di lui tutti ricordiamo e che possiamo ritrovare nelle molte interviste filmate, un uomo maturo, quasi anziano. Argentieri è un giovane: non ha 35 anni. Impossibile che si tratti di un mero vezzo stanislavskiano degli autori, quello di prendere un giovane per rappresentare un vecchio in un’opera che si basa sulla mimesi perfetta. Ecco: in quella massima, completa significanza, apertamente tesa alla mimesi, tale dettaglio non è un dettaglio, è un allarme che chiede di essere ascoltato, e riempito, anch’esso, di senso.
Andrea Argentieri «È identico!». Sì – ma no, non è vero che è lui.
Ovvio, ma fino a un certo punto. Perché nella polverizzazione dei dettagli di cui parla anche Walter Siti nel suo strabiliante saggetto sul realismo, questo grande dettaglio divergente, che si cela quasi nascosto (eppur così evidente) sotto la massa di altri mille dettagli convergenti, spicca improvvisamente centrale. Non può non voler dire qualcosa.
E non ci vuole molto perché a tale dettaglio se ne associno, saltando fuori dalla superficie dello spettacolo, alcuni altri.
Perché Levi, nel primo capitolo, riceve l’intervista dallo schermo di un laptop (è, nell’intervista, la “telescrivente”), uno strumento di esibita contemporaneità?
Perché, durante la lettura di alcuni passi dei suoi libri, Levi stacca lo sguardo dalla pagina stampata e lo rivolge allo spettatore, sollevandosi dall’esigenza dell’iperrealismo fino ad allora perseguita senza scosse, entrando in una sorta di tranquilla trance oratoria?
Occorre tornare alla prima lapalissiana risposta, e trarne le dovute conseguenze: perché questo davanti a noi non è Primo Levi. Lo sembra, ce lo ricorda, lo cita e lo chiama rispettosamente ma imperativamente in causa, ma non vuole essere lui.
Se è vera questa lettura, allora, c’è da credere che prima ancora del messaggio colmo di rispetto e persino di speranza che la drammaturga Chiara Lagani e il regista Luigi De Angelis hanno voluto darci riportando in vita le parole di questo grande uomo, c’è un altro messaggio opposto, funebre e straziante, che riesce a non confliggere col primo, ma ad accompagnarlo.
Primo Levi non c’è più, quella figura d’uomo e d’intellettuale è estinta, sepolta; le scariche elettriche che si insinuano fra il corpo vero di Levi e il corpo-sagoma di Argentieri sono lì allo scopo di caricare questa evidenza e di farcela saltare agli occhi: impensabile oggi una simile asciuttezza, una simile mancanza di risentimento e odio dove pure sarebbero legittimi, una modestia tale nella professione letteraria, persino una simile fiducia nella ragione e nella vita, una mancanza di fede religiosa così lucida e priva di intemperanze, una dedizione alla più asciutta e fiduciosa operosità umana. Un Primo Levi oggi è insomma non solo impossibile, ma impensabile.
Nella sottile crepa che quelle piccole dissomiglianze hanno divaricato nel lavoro, si apre una più grave, radicale crisi. “Se questo è Levi” non è la consolante riviviscenza di un grande uomo, ma il grido spiazzante, emesso con gli strumenti propri del paradosso, che ne denuncia l’anacronismo, come a indicare alla nostra società, di lontano, attraverso la voce di un’umanità che siamo stati e non siamo più, «la tomba ignuda».
SE QUESTO È LEVI
performance/reading itinerante sull’opera di Primo Levi
con Andrea Argentieri
regia Luigi De Angelis
drammaturgia Chiara Lagani
produzione E/Fanny&Alexander
1. Se questo è un uomo – durata 35’
2. Il sistema periodico – durata 40’
3. I sommersi e i salvati – durata 40’
Visto a Narni il 3 ottobre 2020