Se sapessi cantare mi salverei. Il ‘metateatro’ di Juan Mayorga nella messinscena di Adriano De Santis

Se sapessi cantare mi salverei
Se sapessi cantare mi salverei
Se sapessi cantare mi salverei (photo: Francesco Galli)

“Se sapessi cantare mi salverei”, un titolo ironico per raccontare l’ambiguo rapporto che lega artisti e critici. Lo spagnolo Juan Mayorga immagina infatti l’incontro tra il vecchio e temuto critico teatrale Volodia e il giovane autore Scarpa che, tra concessioni agli stilemi commerciali e immagine da tormentato ‘enfant prodige’, ha fatto il botto e ora cavalca l’onda del successo. Quest’ultimo si presenta a casa del censore con l’intenzione di assistere alla redazione della sua, determinante, recensione. Uno spettacolo sul teatro e per il teatro, di cui daremo un accenno provando, ironicamente, a stare al gioco, anche solo per vedere se, in risposta, il gioco “sta a noi”. Ancora una volta, uno scambio.

Torno a casa dopo aver assistito a “Se sapessi cantare mi salverei”, che devo recensire. La casa silenziosa, una tazza di caffè caldo, finalmente il ristoro del fresco autunnale. Mi siedo alla scrivania deciso a buttar giù le prime idee, quando suonano alla porta. “Chi è?”, faccio io. “Sono Mayorga”, risponde una voce. Apro la porta e lui è lì, spettinato e sfatto, una bottiglia di vino in mano, che chiede udienza. Lo invito ad entrare, gli chiedo come mai non sia con tutta la compagnia a festeggiare quella che sembra essere la consacrazione definitiva di un successo. Per tutta risposta, Mayorga mi spiega che del suono degli applausi non gliene frega quasi niente, ché lui è la mia opinione che vuole ascoltare. Mi sembra preoccupato, teme che lo stroncherò. E magari è anche vero, ma meglio non darlo mai a vedere. Con lo stesso sorriso con cui ho salutato il direttore del festival, invito Mayorga a prendere posto: se proprio non può farne a meno allora va bene, che guardi, che si metta seduto e mi osservi, in silenzio, mentre metto il timbro sul documento che certificherà il suo futuro.
Non fosse che quelle due righe sintetiche, di cui vado così fiero vista la mia solita prolissità, sono per lui tutt’altro che lusinghiere. Ne aggiungo altre due, stroncando del tutto il secondo atto. Niente, vuole proprio approfondire. Vuole capire perché il suo spettacolo non abbia funzionato a dovere. E va bene.

Fino a qui abbiamo raccontato quel che davvero accade in scena tra Scarpa e Volodia. Da qui in poi i due discutono fino ad arrivare ad allacciare insospettabili collegamenti tra due vite che, fino a quel momento, si sono sfiorate soltanto a colpi di debutti e relative critiche e che ora si alimentano, si danno senso a vicenda. A prendere forma sarà uno schema maestro/allievo che solca trasversalmente il sistema teatrale al punto da unire due fazioni quasi mai, magari anche a causa dei critici “cattivi”, in grado di convivere in pace.
Noi non ci prenderemo la libertà di immaginare alcun legame privato con Juan Mayorga ma, ricalcando i segni di Volodia in quelle quattro righe di stroncatura e le sue successive argomentazioni, diremo che, anche laddove un testo dimostra buon respiro, non è prudente, per chi volesse trasformarlo in un bello spettacolo, rinchiuderlo in quattro mura così strette, affidando a disegni di regia quasi radiofonica il complesso rapporto di due personaggi che procedono per metafore e sottili allusioni. Si potrebbe quasi dire che, a maggior ragione, se un testo dimostra quel respiro, nessun regista ha il diritto di soffocarlo così. Tanto più quando nei dialoghi tra i due personaggi compare proprio quel tipo di discorso: se il teatro debba essere cruda verità o splendida bugia. Quale che sia la scelta, sarà comunque necessario filtrarla attraverso il carattere complesso e sintetico che caratterizza la messinscena teatrale. Una messinscena nella quale Mayorga sembra in ogni battuta implorare la regia che inserisca un fatto fisico, in questa versione totalmente mancante. Un esempio su tutti: Scarpa che descrive l’incontro sul ring tra Taubes e il suo allievo (il testo di Scarpa parla di boxe), in cui non riesce a trapelare, nonostante la prossimità con il pubblico, la minima cura dei movimenti. Se avessimo visto un attore “di parola” trasformarsi improvvisamente in un pugile plausibile, ci saremmo stupiti. E il teatro vive anche di questo, di stupore.

Detto ciò, pare che i commenti del vero Mayorga a questa messinscena di Adriano De Santis siano stati entusiasti, al punto che lo spagnolo avrebbe detto “forse rivedrò il testo sulla base delle suggestioni di quest’anteprima”. Tutto è bene quel che finisce bene, ma avremmo davvero preferito un po’ più di ingegno nel trasferire un testo che parla di teatro in un luogo non teatrale come un ex-tribunale. Dando senso al senso e respiro agli attori, lo stesso che Mayorga si prende in qualche tirata poetica, più efficace a leggerla che ad ascoltarla, se diretta così.

SE SAPESSI CANTARE MI SALVEREI
di Juan Mayorga
traduzione di Antonella Caron
produzione: Festival Qda e Ass. Cult. Beat ‘72
regia: Adriano De Santis
interpreti: Francesco Brandi, Vito Mancasi
luci: Marco Palmieri
con la collaborazione artistica di Roberto Antonelli
durata: 1 h 20’
applausi del pubblico: 1’ 40’’
anteprima mondiale

Visto a Viterbo, Ex Tribunale, il 7 settembre 2009
Festival Quaderni dell’Arte

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