Semiramide al 40° ROF. Il Rossini di Graham Vick, capovolto e (mezzo) felice

Photo: Rossini Opera Festival|Photo: Rossini Opera Festival
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Ci penso spesso, chissà se anche lei se lo ricorda: era una sera del settembre 2010, a Orroli, nella pancia della Sardegna, discutevo con Thea Dellavalle, regista e specialista di Jon Fosse, sulla posizione che a un interprete è consentito assumere nei confronti del testo su cui lavora. A me sembrava non ci fossero alternative: egli doveva, secondo le sue inclinazioni, il suo stile, il suo immaginario, il suo universo culturale esserne servo, lavorare affinché le caratteristiche di quel testo emergessero appieno.
Lei, già più avanti di me, mi provocava: perché un interprete non potrebbe invece decidere di mettere in scena un lavoro contrastandolo, lavorandoci “contro”?

Al Rossini Opera Festival XL (che sta per quarantesimo) va in scena un monumento venerabile dell’opera a cui soltanto accostarsi ispira reverenza, se non altro per la durata: “Semiramide” (1823), ultima opera italiana di Rossini prima del suo trasferimento in Francia, attraverso una breve parentesi londinese – farà ritorno solo molti anni dopo, quando sarà già nel pieno di un silenzio compositivo lungo fino alla morte, un silenzio rotto da rari gioielli, ma mai più da un nuovo melodramma.

La trama è tratta dalla tragedia di Voltaire, che si sostituisce al vetusto libretto metastasiano sullo stesso argomento, messo ancora in scena quattro anni prima da Meyerbeer. Si racconta della regina di Babilonia complice dell’uccisione del marito, la quale, anni dopo, si innamora di un giovane guerriero e ne vuol fare il proprio sposo, salvo poi accorgersi che sotto il falso nome di Arsace si nasconde Ninia, suo figlio creduto morto, a cui il gran Sacerdote affida l’ingrato compito di fare vendetta della morte del padre.
Semiramide pagherà con la vita la duplice colpa di assassinio e di (progettato) incesto.

Attorno alla “coppia fatale” ruotano altri personaggi: Assur, esecutore materiale dell’assassinio e illegittimo aspirante al trono, Idreno, figura di amante teoricamente in contrasto con Arsace per l’amore di Azema, “principessa del sangue di Belo”, Oroe, il gran Sacerdote che attraverso i responsi dei numi guida le vicende, e nientemeno che l’Ombra di Nino, il sovrano ucciso, che compare oltremondano come il padre ad Amleto, ma ben più platealmente durante una cerimonia pubblica, per annunciare il compiersi della vendetta.

La stesura per la prima veneziana fu lunga, cosa abbastanza rara per Rossini, e piuttosto parca di autoimprestiti, cioè del riuso di materiali musicali presi da opere precedenti, pratica comune al tempo e usatissima dal Pesarese. Sembra quasi che egli volesse lasciare dietro di sé, prima di partire per l’avventura francese, un lavoro che esemplificasse la forma ideale sempre ricercata, l’opera italiana perfetta, consegnatagli dalla tradizione settecentesca e da lui portata a compimento. Una forma astratta, stesa su una drammaturgia a numeri chiusi – lo spettro contro cui Wagner lotterà per tutta la vita: una forma della convenzione, limpidamente razionale, non rispondente a criteri di realismo, non imitativa. “Semiramide” infatti è composta quasi aprioristicamente secondo un modulo ripetuto con poche variazioni: introduzione, aria cantabile, tempo di mezzo adatto a fornire nuovo materiale drammaturgico, da sviluppare nella successiva cabaletta con interventi del coro, alla ripresa del cui tema il cantante può introdurre variazioni alla linea melodica, per sfoggiare virtuosismo e mandare il pubblico in delirio. Similmente procedono per lo più i brani d’assieme.

All’interno di questa architettura, i sentimenti non sono tradotti realisticamente nella musica (un grido di dolore non sarà mai messo in musica con qualcosa che ricordi un grido di dolore), essi sono descritti: «I personaggi del dramma rappresentano l’azione», avrebbe detto l’autore ad Antonio Zanolini – quasi preconizzando Brecht.
Per avere un’idea del linguaggio musicale che ne discende, basta leggere cosa ne biasimava Hector Berlioz, compositore della generazione successiva (peraltro ammiratore del Rossini comico, e vero e proprio fan del “Guillaume Tell” che, si sa, è un’altra storia): «On chante et on joue faux et horriblement faux […] quand on exprime la douleur par des roulades vocales rapide, quand le chanteur fait un gruppetto sur une note qui devrait s’exhaler pure et simple […] quand une reine chante comme une grisette, quand l’orchestre exécute une marche d’un rhytme sottement joyeux pour accompagner une scène où l’angoisse et l’horreur dominent […]».

Proprio così: in Rossini non leggeremo né lacerazioni, né disarmonie, perché ogni rottura dell’ordine (nella trama) è già ricomposto all’interno di un altro ordine, quello superiore delle forme musicali, del tempo e delle relazioni armoniche. La musica dunque non punta a “significare” qualcosa di dicibile, ma è linguaggio a sé stante. È curioso, tra parentesi, come questa pratica suoni più in linea con le concezioni dei filosofi romantici rispetto alle opere romantiche vere e proprie, spesso “a programma” o spostate su tesi “nazionaliste”. Mentre invece la musica è per Hegel, come ci ricorda Mario Ruggenini, «l’autointuirsi della pura luce». Magnificamente gratuita, dunque libera.

Ciò detto, è nel pieno diritto del direttore Michele Mariotti di prendere nota di tutto questo e, con l’edizione critica approntata nel 2001 dai compianti Alberto Zedda e Philip Gossett sottobraccio, fare il contrario? Portare quella musica sulla terra, farla parlare attraverso il brivido di spigoli e azioni fisiche? Soffiare sull’orchestra un continuo palpitare di colori, tenere le dinamiche tese, mai scomposte ma non di rado aggressive, scolpire dettagli finora rimasti sepolti tra i righi facendoli emergere come segni inequivocabili di respiro e polso, di vita biologica? Dare forza sinfonica, cioè drammatica (cioè conflittuale) all’accompagnamento dei cantanti senza però sopravanzarne il ruolo predominante, sottrargli quella caratteristica piana di sostegno e farne invece gesto palpabile, energia che quasi guida i personaggi?
Ebbene sì, di fatto è ciò che è accaduto nell’esoscheletro spaziale della Vitrifrigo Arena. E ha funzionato.

Mariotti ha usato l’orchestra mettendola sempre in scena come un ulteriore personaggio, quasi come un coro tragico, più vivo e vigile di quello sul palco. Essa è esplosa iridescente e ha brontolato cupa nella Sinfonia e nelle tante introduzioni strumentali alle scene; è stata l’impulso nervoso del braccio che colpisce, il velo che ha avvolto stretti madre e figlio in un duetto quasi sensuale; ha saputo accompagnare il coro nella pratica di soluzioni estreme, come un ‘sottovoce’ letterale dove riportato in partitura in ‘Belo si celebri’ e tessere un tappeto volante spesso ma sospeso nell’elegia della prima aria di Idreno.

L’orchestra di questo Rossini, la consapevole compagine della RAI, è scesa insomma in campo con un piglio che Verdi avrebbe definito gestuale, agli ordini del suo direttore, che – tranne per un paio di momenti – non fa perdere il contatto tra buca, coro, solisti e banda fuori scena (a cui risparmia gli accordi dell’introduzione al coro ‘Di plausi quel clamor’, atto I).
E la gran parte dei solisti accetta questa sfida “contro”, cercando di attribuire personalità definite, soggettive, ai personaggi, di vivere le passioni piuttosto che raccontarle.
La campionessa di questa direzione è Varduhi Abrahamyan, applauditissima, che nel ruolo ‘en travesti’ di Arsace sporca di umanità la parte, grazie a una voce che sa essere caricata e irregolare quanto basta per comunicare alla pelle più che al cervello, e talvolta per graffiarla.
Sull’altro versante, mentre Antonino Siragusa nel ruolo di Idreno va leggero, forzando qualche acuto ma risolvendo tutti i virtuosismi, l’Assur di Nahuel Di Pierro acquista le dimensioni dell’impegnativo ruolo poco per volta, ben concludendo in una scena di pazzia credibile e apprezzata. Ma probabilmente la migliore in campo è Salome Jicia, habituée del rossiniano, Semiramide vocalmente sincera e coinvolgente, dal timbro non personalissimo ma corposo, proiettato perfettamente e limpidamente, a suo agio nelle agilità come nel canto drammatico, sempre elegante in scena, portatrice di una regalità sobria e consapevole fin nei gesti più quotidiani.

Photo: Rossini Opera Festival
Photo: Rossini Opera Festival

E la musica di Rossini? Così reificata brilla di una luce nuova, come se si spogliasse di panni pur magnifici, mostrandoci una nudità seduttiva: dall’aurato soglio alla pelle di un divano semicircolare crema.

Ad accompagnare questa discesa dall’apollineo al drammatico è, fino a un certo punto, la regia di Graham Vick, già alleato di Mariotti per un “Guillaume Tell” al ROF 2013 e per una “Bohème” bolognese.
Se luci, costumi, attrezzeria e recitazione sono scrostati da paludamenti e astrazioni, e tutti vestono panni borghesi (ad accezione del curioso contrasto stilistico della coppia Idreno-Azema in babbucce e specchietti ricamati, e di un Oroe rasta accompagnato da un pugno di santoni un po’ fumati), talvolta la recitazione depurata da monumentalità tragica non trova un suo carattere precipuo, se non una generica ‘naturalezza’. Ma una naturalezza credibile ha bisogno di studio millimetrico, o rischia di essere impacciata e sciatta. Lunghe passeggiate dalla dubbia meta, mani in tasca, si distendono sul palco (estenuante quella della scena e cavatina di Arsace) e il finale, in cui nel buio di una cripta il riconosciuto Ninia dovrebbe uccidere la madre, guidato da un brutale destino, è consegnato a un non-sense in piena luce, scomodamente ridotto presso la quinta sinistra: l’impressione che rimane è di capitolazione di fronte alla resa di un punto particolarmente ostico.
Simile è la sensazione che genera la scelta di non scegliere riguardo al problema del genere di Arsace, giovane guerriero cantato da una donna. Lo spirito dei tempi richiede una condivisibile delicatezza nell’affrontare ogni problema simile. Vick vorrebbe ostentare disinvoltura lasciando Abrahamyan coi lunghi capelli ricci sciolti, scollatura femminile e scarpe col tacco, ma nessuna forte impronta registica riesce a far quadrare il cerchio tra libretto, caratteristiche vocali, presenza scenica.
Ovviamente il problema potrebbe essere secondario, tuttavia è un punto a cui un regista non può sottrarsi, il pubblico lo richiede: ciò che voleva forse essere superiore disinteresse rischia di apparire come un’ulteriore rinuncia di fronte a un paventato ginepraio.

D’altra parte la disposizione scenografica è per lo più esteticamente riuscita. È tutto strutturato attorno alla presenza di dieci alti pannelli mobili della larghezza dell’intero quadro scenico, incernierati l’uno all’altro, che portano su una faccia l’enorme e suggestiva immagine di un paio di occhi di vecchio, nelle cui pupille è riflesso il gesto probabilmente di un uccisore (lo sguardo di Nino? Ma all’apparire della sua Ombra, impersonata da Sergei Artamonov, le fattezze non corrispondono…) e sull’altra un paio di disegni infantili che raccontano il matricidio che si andrà a compiere.
Tali pannelli, spostati, ruotati, scomposti e ricomposti, affiancati ad altri fondalini e siparietti, saranno la forma scenografica attorno a cui ruoteranno tutte le vicende. Una formula scenica registicamente ineccepibile ma che, accoppiata agli inspiegabili vuoti di cui si diceva prima, genera una mancanza di organicità e soprattutto di corrispondenza con l’intera impostazione di una “ridiscesa nel mondo”, della restituzione al dramma di un’opera tragica.

Per spiegarsi meglio basterebbe un esempio: sebbene a leggere il libretto sia palese che l’unico rimorso ad assillare Semiramide sia la sua correità nell’uccisione del marito, Vick decide di infierire su di lei, fin dall’Introduzione, con la presenza scenica di numerosi rimandi al Ninia creduto morto. Tale idea fa da sfondo con i disegni infantili di cui si diceva, percorre la scena nei piccoli panni di un figurante bambino, sta fissa nell’angolo destro sotto forma di un lettino azzurro, in cui talvolta qualcuno si va a coricare e occhieggia nella grottesca mole di un orsacchiotto azzurro di quattro metri. E così il fuoco del tempio di Belo che si spegne per segno divino nel primo atto diviene la tenue fiammella di un cerino in mano al figurante.
Non si nega che, anche in questo, Vick sappia mostrare sottigliezze (come l’evidenziare il lettino infantile proprio durante l’introduzione al quartetto ‘Di tanti regi e popoli’, che richiama musicalmente quella della cavatina di Arsace). Ma i continui segnali simbolici, gli accenni genericamente psicanalitici costituiscono altrettanti rimandi a un ulteriore piano e appesantiscono il testo di una terza lettura difficile da difendere.

Abbandonato il mondo dell’astrazione formale neoclassica, ora si accantona in parte anche quello del realismo romantico e ci si inoltra in un terzo versante di analisi: quello che vorrebbe scavare in un’interiorità realistica (novecentesca, stavolta) assegnata di fresco ad alcuni dei personaggi, caricando le articolazioni del testo del peso di un doppio salto mortale il cui atterraggio è accidentato.

Il risultato pratico è che, come si anticipava, l’impegno reificante di Mariotti trova solo a tratti un suo riscontro sulla scena: per ampi tratti del lavoro buca e palco, sempre in comunicazione a livello musicale, smettono di parlarsi dal punto di vista teatrale. L’esperimento è riuscito, ma per metà, per mancanza di coerenza progettuale. In definitiva, alla calata del sipario si è costretti a domandarsi a quale spettacolo si sia assistito.

È dunque possibile mettere in discussione fino in fondo ciò che si pensa debba essere l’idea di un autore, senza per questo essere accusati di blasfemia né tantomeno di attentato alla tradizione, ma solo procedendo con non meno coerenza che coraggio, e senza mai rinunciare alle sfide, anche le più spinose, che l’impresa comporta.
Anzi, mi sembra che sia proprio nell’essenza costitutiva della nostra modernità l’idea del dubbio, del tentativo – del “cimento”, direbbe Idreno. È una diversa ma complementare declinazione di quella stessa libertà di cui si parlava prima, quella della costruzione di un sistema astratto, autoportante; e solo rifiutarla, questo sì, è un voltare le spalle alla tradizione, la vera tradizione, che è sempre stata questo: rilettura, critica, e aspra battaglia tra innovatori e classicisti. Ciò che si è conservato è perché è uscito rafforzato da questa dialettica.
Solamente tali libertà sono inoltre degne di essere sbandierate come sigillo identitario, verso sé stessi e nei confronti dell’altro, ossimorico ‘sigillo di apertura’ al tentativo, alla contraddizione, alla ricerca, all’errore, alla tenace sopravvivenza del bello, unica speranza che abbiamo per restare vivi.

Semiramide
Melodramma tragico in due atti di Gaetano Rossi
Direttore MICHELE MARIOTTI
Regia GRAHAM VICK
Scene e Costumi STUART NUNN
Luci GIUSEPPE DI IORIO

Interpreti
Semiramide SALOME JICIA
Arsace VARDUHI ABRAHAMYAN
Assur NAHUEL DI PIERRO
Idreno ANTONINO SIRAGUSA
Azema MARTINIANA ANTONIE
Oroe CARLO CIGNI
Mitrane ALESSANDRO LUCIANO
L’ombra di Nino SERGEY ARTAMONOV

CORO DEL TEATRO VENTIDIO BASSO
Maestro del Coro GIOVANNI FARINA
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI

Nuova coproduzione con Opéra Royal de Wallonie-Liege

Edizione critica della Fondazione Rossini.
In collaborazione con Casa Ricordi.
a cura di Philip Gossett e Alberto Zedda

durata: 4h 30’ con un intervallo
applausi del pubblico: 5’

Visto a Pesaro, Vitrifrigo Arena, il 20 agosto 2019

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