Mentre al Teatro Vascello di Roma ci si prepara per “Sei” di Scimone/Sframeli, già recensito da Klp a Milano, città per la quale sono passati da poco anche “I sei personaggi in cerca d’autore” di Michele Sinisi, il fantasma di quest’opera di Pirandello continua ad aggirarsi per l’Italia, forse in sobbollente attesa del prossimo centenario, il 9 maggio del ‘21.
Il “magnetismo” del testo, scollato dal comfort della pagina per tornare alla prova della vita vera di sala, si attiva ancora più potente nel luogo dove quella prima ha avuto luogo quasi cent’anni fa, il Teatro Valle di Roma. Attualmente inagibile per spettacoli veri e propri, dal 2014 attende di essere riportato a un ruolo di palco effettivo, e intanto vivacchia tra ‘visite spettacolo’ e ruoli marginali in progetti altri.
Una scossa di quel magnetismo (termine così caro al primo Novecento) deve averla però avvertita, la vecchia sala, quando Riccardo Fazi e Claudia Sorace dei Muta Imago hanno pensato di installarvi il risultato del proprio lavoro con il laboratorio della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma, “Senza quinte né scena. Un non spettacolo per un non teatro”, che proprio dai “Sei personaggi” prende l’abbrivio – e ne cita la primissima didascalia.
Se c’è un campo in cui la compagnia romana è imbattibile è proprio quello del polarizzare suggestioni, del permettere a eventi che sotto una data luce vibrano d’affinità, di incontrarsi e toccarsi. E dar vita, nella loro collisione, ad altro. Ed ecco che un “non teatro”, amputato del palcoscenico, diviene luogo per un multi-testo/non-testo, che aggiunge un proprio ulteriore piano di ambiguità alla duplicità dell’opera pirandelliana.
Gli otto giovani attori sono infatti chiamati a un lavoro di riscrittura, di interpolazione delle scene dell’opera originale con brani di pugno loro, da recitare in rapporto uno a uno di fronte ai pochi spettatori ammessi, sette per replica. Li portano nei bagni, nei palchetti, li fanno perdere nei dedali dei corridoi, tra camerini e palco, fanno loro annusare l’odore delle assi e delle tappezzerie lise, scavalcare le commessure di moquette e parquet.
I risultati (nelle tre performance singole destinate a ogni spettatore) sono diseguali tanto nel tono, quanto nella riuscita. Talvolta le saldature tra la commedia e la confessione riescono troppo sommarie, altre volte forzate, o invece quasi impalpabili – se non fosse per l’inconfondibile dettato di Pirandello, per il suo ritmo di musica continuamente scossa da implorazioni, allocuzioni, che sembrano i brividi di qualcuno che, prossimo a congelarsi, cerchi per un moto tutto interno di scaldarsi.
La identità degli attori, le loro biografie (vere o presunte, più o meno assonanti col bordone di “Sei personaggi”), il loro ruolo di attori/personaggi, sono il tema dei monologhi qui restituiti allo spettatore. La sfida è veramente ardua e travalica sia la resa di un lavoro scritto, sia la scrittura del sé, sia l’opera di contaminazione dei due, trovando il proprio compimento solo nel momento dell’interpretazione in quel difficile intimo contesto che si diceva.
Per dire meglio: dato uno spazio scenico suggestivo ma “scomodo”; dato un testo così stratificato; imposto un rapporto così teatralmente innaturale come quello ‘uno a uno’, la sfida è (facile a dirsi) quella della comunicazione, ovvero dell’invenzione di un canale sottile ma esatto per veicolare e districarsi.
E dove alcuni sembrano quasi dichiarare irricevibile la missione del “dialogo” con il compagno di viaggio/spettatore, lasciandolo a guardare, dove altri forzano il dialogo spingendolo senza mezze misure a una tensione di conflitto ingiustificata, che spiazza senza coinvolgere (ma non c’è anche questo, talvolta, nelle durezze, nei patetismi di Pirandello?), qualcun altro con la punta delle dita pizzica la nota giusta: fra i tre esperimenti che ci è capitato di incrociare, stupisce per la sapiente spudoratezza nell’uso di tutti i mezzi disponibili, dalla seduzione disgustosa (l’«orribile ammiccamento» della creatura «aizzosa, invitante») alla fioca alienazione, Francesca Fedeli, che nell’appartato parallelepipedo di un palchetto di platea ricostruisce ora la cabina di una nave, ora lo sgabuzzino dell’iniziazione sessuale con un cugino, ora il riquadro entro cui ballare in due il ballo solitario di una coppia in una festa più grande – magari lo stesso “Les chinois sont un peuple malin” accennato dalla Figliastra.
Vestita di uno stupido rosso (com’erano rosse le sete di quel monstrum di Madama Pace, certo, ma anche più volte «il rosso della vergogna» che tinge la spaventosa famiglia) riesce a trovare la piccola chiave d’oro, in pianissimo, un pianissimo mahleriano teso da strapparsi, per raccontarci di quella prima volta, da sola, a cavalcioni del bidè.
Senza quinte né scena. Un non spettacolo per un non teatro
ideazione Muta Imago
regia Claudia Sorace
drammaturgia Riccardo Fazi
assistente alla drammaturgia Elisa Clara Maddalena
di e con Sara Bertolucci, Gloria Carovana, Edoardo Coen, Michela De Rossi, Francesca Fedeli, Ivan Graziano, Marisa Grimaldo, Benedetta Parisi
allestimento spazio scenico Maria Elena Fusacchia
durata: 60’
Visto a Roma, Teatro Valle, l’1 dicembre 2019