A un passo dal finale di stagione, il Palladium fa un regalo a decine di giovani danzatori e a tutti gli amanti della danza contemporanea all’interno di “Aprile in danza”: va in scena sull’insolito palco trapezoidale del teatro dell’università di Roma Tre una corolla di brevi coreografie di Mauro Astolfi, pensate e messe in scena per lo Spellbound Contemporary Ballet e danzate da otto performer.
La platea è come al solito felicemente affollata da molti giovani, scortati da azzimati maestri, e in effetti la serata ha un po’ il dolcissimo sapore di un saggio, nel senso di una prova, un assaggio dell’arte di Astolfi e dei suoi i quali, senza soluzione di continuità, portano sul palco i cinque pezzi, risalenti agli ultimi cinque anni.
E se c’è qualcosa ancora da dimostrare, da parte di Spellbound, è che quella che sembra un’arte tanto delicata da poter essere evocata solo nella perfezione del contesto tecnico, bene, questo non è vero, perché il palco del Palladium è slargato, molto aperto in tutte le dimensioni, apparentemente ostile all’intimità richiesta dal linguaggio della compagnia, e l’impianto audio patisce qualche sofferenza.
Inoltre, si prova che quell’idioma-Spellbound, così fortemente connotato, è in realtà aperto a diversissime declinazioni, dalla citazione (benché appena sfiorata) della quotidianità all’astrazione più completa.
In “Formami” i tre danzatori trovano continui contrappunti stilizzati l’uno rispetto alle vicende degli altri due, e poi viceversa, componendo e scomponendo gli insiemi, giocando a spostare continuamente e irresistibilmente il fuoco dello sguardo in un approfondirsi di piano, mentre gli arti sembrano allungarsi a dismisura, a ricomporre una forma persa, da ricontrattare con l’altro da sé. Le luci (di Marco Policastro) e i costumi concordano nel comporre un ambiente senza connotazioni naturalistiche.
Diverso, opposto, l’orientamento di “Small crime”, un lavoro in cui i costumi divengono invece quotidiani e tracciano coordinate più riconoscibili, quasi borghesi. Le musiche qui riescono con il minimo sforzo a creare la massima suggestione, disponibili come sono, nei loro occhieggianti minimalismi pianistici, ad accogliere sentimenti e sentimentalismi. Di contro i due danzatori giocano a contraddirne quasi provocatoriamente i tempi lenti, con movimenti improvvisamente accelerati, ciò che un cantante chiamerebbe “coloratura”, disegnando ciò che sembra una vicenda a sfondo amoroso-relazionale. Il tutto con una comunicativa esplicita, forse persino troppo suadente, ma di innegabile bellezza e sensualità.
È la nota della sensualità che lega il brano al successivo, “Hunger and grace”, grazie all’esordio sotto l’egida del Larghetto dal secondo concerto chopiniano. Ma è solo l’inizio: i costumi nuovamente danno l’orientamento primo, camicie bianche e capelli raccolti per lei (un’altra coppia uomo-donna è protagonista).
Stesso è l’idioma, diverso il linguaggio, qui miracolosamente più asciutto, quasi ironico, fra i due. Il contatto perde sensualità e sembra leggero, con una grazia, a onta di Chopin, settecentesca, rococò: se di un amore anche qui si parla, è un amor bianco, adolescenziale, di scuola, di collegio, con le sue belle divise. E mentre lui nel finale si allontana, ecco che lei, quasi preda di una metamorfosi involontaria, la maturità, rimane fibrillante sul terreno, e si risveglia sola, diversa.
Si spogliano i torsi dei danzatori, stavolta due uomini, per “Man made”: la luce torna ad assumere un ruolo preminente, a disegnare nello spazio, con tagli laterali e un controluce blu due daimon che sperimentano il proprio e l’altrui corpo, quasi una metonimia dell’atto dello stare su di un palco e dunque dello stare nel mondo.
I corpi tentano equilibri, si ingegnano su come porsi e muoversi in scena, nella musica, che procedendo per lenti accordi, permette quest’operazione di sartoria esistenziale. Non è sempre lento, il lavorio dei corpi, ma si mostra capace di scatti inattesi e di quel continuo ribaltamento di linee da concave in convesse che è una delle cifre più ricorrenti nell’occhio dello spettatore, qui in atto in un ambiente lunare prefiguratore, benché il pezzo risalga al 2014, dell’impressionante esito di “Full Moon”.
Lo stesso si potrebbe dire per l’ultimo pezzo in programma, l’inedito “In the offing”, in cui converge sul palco la quasi totalità dei danzatori impegnati nella serata.
Torna la tendenza più astratta, contemporaneistica, si direbbe una ricerca gravitazionale, e si ribadisce la continua dinamica gruppo-singolo. I gruppi si creano, si trovano come per improvvisi incontri, e si sfanno, soggetti a pulsioni centrifughe e poi nuovamente lavorando di agglutinamenti e sparpagliamenti, il tutto distribuito tra fasi di attesa e altre frenetiche, disordinate, a tratti vicine all’informale, allo spontaneismo travolgente della proliferazione cellulare, precise ed efficaci ma ardue da ricostruire ex post, per l’altissima perizia tecnica degli esecutori.
Ecco il risultato estremo di quelle premesse di un linguaggio approfondito, ramificato su sé stesso: un’evoluzione stilistica che sminuzza il gesto al punto da renderlo fluido, insieme meravigliosamente HD e irriducibile alla disumanizzata dimensione del frame, non-digitalizzabile.
Serata Spellbound
coreografie Mauro Astolfi
con Pablo Girolami, Lorenzo Capozzi, Giuliana Mele, Giacomo Todeschi, Maria Cossu, Alice Colombo, Caterina Politi, Mario Laterza, Aurora Stretti
produzione Spellbound
realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo
durata: 1h 05′
applausi del pubblico: 3’
Visto a Roma, Teatro Palladium, il 9 aprile 2019