Ruth Anne Henderson incontra il Bardo per caso, a 14 anni, accompagnata dalla scuola in un teatro di Glasgow. Ad intervistarla per Klp è Pietro Deandrea, suo ex studente e ora collega all’Università di Torino
“Ero stufa di leggere saggi su Shakespeare in cui veniva trattato come un romanziere e non come un drammaturgo”: nasce anche da qui la sfida che Ruth Anne Henderson, linguista scozzese ma torinese d’adozione, intraprende con la stesura di un nuovo volume (pubblicato a febbraio) all’interno dell’infinito corpus critico dedicato al più celebre drammaturgo di tutti i tempi. “Il libro non poteva non essere in inglese: soprattutto nel capitolo che parla di metrica sarebbe stato impossibile, perché Shakespeare dà vita ai suoi testi anche grazie agli accenti: ne aggiunge per creare tempeste, tensioni, oppure incertezza, stravolgendo la norma. Dicendoti dove porre l’accento e dove la pausa, perfino un attore mediocre potrebbe riuscire a fare un buon lavoro solo seguendo il testo originale: ecco perché sostengo che Shakespeare è anche regista delle sue opere”.
Ruth Anne incontra il Bardo per caso, a 14 anni, accompagnata dalla scuola in un teatro di Glasgow: “Entrai con l’idea di saltare una lezione, ma quando uscii ero cambiata”.
Ad intervistarla per Klp è Pietro Deandrea, suo ex studente e ora collega all’Università di Torino.
PD: “Shakespeak” nasce dalla tua passione per la lingua inglese e per il teatro. Da dove cominciare a parlare di questo tuo lavoro? Forse proprio dal capitolo 1 (“Approaches to Exposition in Shakespeare’s Plays”), un’analisi degli incipit di molte opere shakespeariane. Tu distingui gli ‘attacchi’ più tradizionali, dove i primi dialoghi presentano personaggi e situazioni, da quelli più innovativi, come l’inizio di Amleto con l’apparizione del fantasma.
RAH: Quello di Amleto è sicuramente un ‘tour de force’: in poco più di dieci battute sappiamo che è successo qualcosa che ha reso nervosi i soldati di guardia, che è notte, che hanno talmente tanta paura che non vogliono stare soli; poi dalla loro conversazione veniamo a sapere che si tratta di una “cosa”, ‘a thing’, che è apparsa e che uno della compagnia è scettico riguardo a tale apparizione. Così anche noi spettatori siamo tesi, perplessi, prima dell’entrata del fantasma, quasi subito riconosciuto come il defunto re. Soltanto alla fine della scena si nomina il protagonista della tragedia, Amleto stesso.
PD: Ho avuto il privilegio di essere stato tuo studente, prima che tuo collega, e come tanti sono rimasto catturato dal tuo senso per il teatro, forse frutto della tua esperienza personale sul palcoscenico.
RAH: Tutti noi che insegniamo siamo un po’ attori, non sei d’accordo? Quando si sta davanti ad una classe di quaranta o sessanta o cento studenti, è un po’ come salire sul palco davanti ad un pubblico pagante: esige non soltanto chiarezza, informazioni utili, dati che possano servire per la preparazione di un esame, ma molto di più, bisogna comunicare con chi ti ascolta in modo da rendere interessante, possibilmente indimenticabile, il materiale. Io ho studiato dizione e recitazione sia in inglese (per ben undici anni) sia in italiano, e mi serve tutte le volte che mi trovo in cattedra, perché esco da me stessa, dalla persona privata che conoscono gli amici, e sono a servizio della materia. Trattandosi poi di una lingua straniera (per gli studenti!), sono importanti la pronuncia precisa, l’espressività, la capacità di intrattenere, senza ovviamente esagerare. Quando insegnavo al Dams mi lasciavo andare di più perché i ragazzi in quel dipartimento hanno spirito artistico; una volta sono addirittura salita sulla cattedra per far sentir loro il prologo a “Enrico V”. Nelle nostre aule universitarie, spesso progettate male per l’uso che se ne fa, diventa ancora più necessario superare le barriere costituite da cattedre troppo grandi, sedie rotte, acustica non sempre perfetta.
PD: Mi ricordo che una volta, per parlare di “Re Lear”, hai cominciato prendendo una copia del dramma e dicendo: “Questo NON è un libro”, lasciando esterrefatti gli studenti. Volevi dire una cosa molto semplice ed ovvia: come scrivi in “Shakespeak”, analizzare i testi di Shakespeare senza coinvolgere il contesto del palcoscenico è come giudicare un piatto soltanto in base alla ricetta scritta, senza assaggiarlo. L’importanza del teatro recitato per l’attività didattica è ovvia, ma è forse meno scontata per l’analisi dei testi. In che modo la prospettiva della messinscena è stata importante per “Shakespeak”?
RAH: E’ stata assolutamente fondamentale. Potessi bandire i testi di Shakespeare dalle nostre aule, nei licei e all’università, lo farei subito, perché rendono arido lo studio, distraggono dalla vera natura dell’opera. Pensiamo soltanto al fatto che sulla pagina non possiamo per così dire vedere una presenza silenziosa, magari nascosta: torno ad Amleto per un esempio eclatante. Quando il principe recita il suo soliloquio “Essere o non essere” non è solo, ci sono altri tre personaggi sul palco, Polonio, Claudio e Ofelia, i primi due nascosti agli occhi di Amleto, la terza piantata lì per tendergli una trappola. Il pubblico a teatro non può mai dimenticare la loro presenza. Invece, leggendo il testo in aula o a casa, non si nota neanche che Amleto è spiato persino in quel momento così privato.
PD: Un altro tratto distintivo del tuo libro è il lavoro sul linguaggio, arricchito dalla tua formazione di studiosa dell’Inglese Antico e Medievale, e di Storica della Lingua. Mi ha colpito, per esempio, l’osservazione sull’inizio del “Coriolano”: la presenza di molti termini di origine latina, in teoria, poteva renderlo poco comprensibile ai settori del pubblico più popolari – ma tu fai notare come molti di quei termini fossero entrati nella lingua inglese da almeno un secolo, e quindi già parte del linguaggio comune. Il quarto capitolo (“Shakespeare and the Language of Madness”), invece, si concentra sulla follia di Amleto: vera o simulata? Come può, l’analisi linguistica, aiutarci a far luce su questa nota questione?
RAH: Ti rimando al quarto capitolo del libro… Scherzi a parte, mi sono documentata sul linguaggio della follia, sia nella letteratura (ad esempio Blanche in “Un tram chiamato desiderio”) sia in qualche testo di psicolinguistica, sia in altre opere dello stesso Shakespeare. Quando cede la mente, cede anche il controllo del discorso; a volte persino la sintassi non regge più. Ci sono momenti in cui Amleto è in uno stato di evidente agitazione e tende a balbettare, a ripetersi, a dire frasi di poco senso; ma nel complesso si esprime con coerenza, a differenza di Lear o Ofelia, entrambi indiscutibilmente impazziti.
PD: Mi sembra che un aspetto di grande originalità di “Shakespeak”, nel contesto della critica shakespeariana più specialistica, sia l’attenzione che tu dedichi all’analisi della metrica nel terzo capitolo: “Shakespeare, Blank Verse and the Actor”.
RAH: Spero in questo caso di aver offerto un piccolo contributo originale alla critica. Ho imparato a gestire la metrica quando studiavo con la mia prima insegnante di recitazione nella mia città nativa; si chiamava Ann Girdwood e le devo molto, perché ci faceva analizzare la metrica di ogni poesia e testo shakespeariano che studiavamo con lei, commentava la distribuzione degli accenti legandola all’interpretazione. Nel terzo capitolo ho cercato di fare la stessa cosa. Chi “sente”, quasi sulla pelle, la metrica scopre che Shakespeare guida l’attore a sottolineare alcune parole, dando la giusta enfasi che serve a comunicare lo stato d’animo di chi parla. Indica le pause, mette accenti in più per creare un clima di tensione; l’attore che si fida del nostro più grande drammaturgo troverà che metà del suo lavoro è già fatta dall’autore stesso.
PD: E’ opinione diffusa tra i critici che le interpretazioni più innovative di Shakespeare vengano, di solito, da Paesi non anglofoni, perché le traduzioni dei testi lasciano più spazio all’interpretazione. Qualche anno fa in Gran Bretagna si è sviluppato un dibattito sull’opportunità di modernizzare la lingua shakespeariana, per renderla più vicina alla sensibilità e comprensione del pubblico odierno: tu cosa ne pensi?
RAH: Finché si tratta di cambiare qualche parola ormai scomparsa dalla lingua corrente, senza alterare il senso delle battute e in pieno rispetto della metrica ove necessario, non mi opporrei ad una modesta modernizzazione. Nello stesso tempo, vorrei insistere sul fatto che banalizziamo già tutto nel nome della “comprensione del pubblico odierno”. Forse sarebbe ora di sfidare il pubblico, di chiedere un po’ di sforzi da tutti noi, se non vogliamo ridurre tutto al livello delle peggiori trasmissioni televisive. Recitato bene, un testo shakespeariano “arriva” al pubblico anche se il linguaggio non è uguale al nostro. Lasciamo i mostri sacri nella loro sacralità!
Invece ben vengano le interpretazioni innovative, sempre nel rispetto dell’originale: ad esempio, mi è piaciuto molto il “Romeo + Juliet” cinematografico di Baz Luhrmann che, senza cambiare una singola parola, è riuscito a rendere accessibile il testo ai giovani di oggi.
PD: Qual è la tua messinscena preferita, tra tutte quelle che hai visto?
RAH: Non ho dubbi: “Much Ado About Nothing” (Molto rumore per nulla) a Londra, nel 1975, con Donald Sinden, un Benedick molto ironico, acido, divertentissimo, e la nostra più grande interprete teatrale, Judi Dench, una Beatrice di grande complessità, capace di far ridere e piangere quasi contemporaneamente. Tanto che il mio volume è dedicato proprio a Judi Dench, con il suo permesso, per ringraziarla di tutto ciò che mi ha insegnato di Shakespeare attraverso le sue magistrali interpretazioni.
R. A. Henderson
Shakespeak: Essays on the Language of Shakespeare’s Plays
Torino
Trauben ed.
2009
pp. 155
10 euro