“La città era dall’altra parte del fiume”: così racconta la minuta narratrice durante la visita guidata. Senza ponti a coprire la distanza, Londra fissava Bankside insieme con imbarazzo e desiderio. Era il quartiere delle pinte, delle meretrici e dei teatri. Una bandiera al vento issata sul tetto significava che verso le 2 ci sarebbe stato da ridere, o da piangere.
Un tweet, oggi, mi ricorda che alle 2 vedrò “As You Like It” (Come vi piace). Al Shakespeare’s Globe. Finalmente.
Non è facile selezionare con cura lo spettacolo da vedere. Non solo il cartellone propone sempre plot raramente frequentati altrove, ma cambiano continuamente ensemble e registi.
Senz’altro intensa l’esperienza culturale: per l’idea, insieme emozionante e visionaria, dell’attore americano Sam Wanamaker di ricostruire, nel 1999, la copia del teatro di Shakespeare a pochi metri dal sito originale, andato in fiamme per una cannonata di scena; ma soprattutto per un’idea di teatro come conversazione viva, ‘filosofica’ in quanto dialogo fra attori e pubblico. Una ‘circolarità mondana’ di odore umano.
Non era, ai tempi, questione di vedere (ad eccezione del Devil’s Nest, dove ai ‘gentlemen’ era dato modo di esaminare con noncuranza le ‘fancy ladies’ alla ricerca di un reddito a costo zero). Era questione di ascoltare il teatro. Era questione di linguaggio. In una prossimità fisica e di occhi. Il che è quello che rimane ancora oggi, come unico elemento di continuità fra una stagione e l’altra.
L’attuale direttrice artistica, Michelle Terry, ‘brandizza’ la stagione 2018 proprio attorno a quel “wooden ‘O’” (così veniva chiamato ieri e ma anche oggi, per la forma della struttura in legno e lo spazio aperto al centro) entro cui Shakespeare ha reso possibile l’incontro reale del mondo con le cose del mondo. In qualsiasi condizione atmosferica, con o senza piccioni (o elicotteri), in piedi o seduti. E la regista di questo spettacolo, Elle While, aderisce pienamente alla logica di una delle opere espressamente immaginate per questo set.
In questa commedia pastorale assai poco frequentata sui palchi italiani, Rosalinda, perseguitata dallo zio e in fuga da una corte assediata, si traveste da uomo per entrare nella robin-hoodiana foresta di Arden, alla ricerca del padre esiliato.
Il risultato di questa versione a doppia firma While e Federay Holmes, per quanto impeccabile dal punto di vista semantico, risulta purtroppo un po’ faticosa. Forse qui interferisce la ‘femmininista’ che mi abita, ma Rosalinda che diventa uomo, proprio no. In particolare se il personaggio si propone ‘en travestie’ nel travestimento.
C’è qualcosa, nella pratica di un’ostinata ‘cross-genderalità’, che rischia di privarla del suo significato misteriosamente e trasformativamente destabilizzante. E’ il caso appunto di Rosalinda — l’alto e snello Jack Laskey, e di Orlando — la petite Bettrys Jones. Semplicemente non si adatta.
Intrattenersi, dal punto di vista registico, sulla norma elisabettiana per cui era illegale essere attrici, donne, sarebbe una pratica affascinante, ma questo triplo salto mortale su quella gemma drammaturgica per cui Rosalinda ‘diventa’ uomo, e il rispecchiamento nel suo contrario (perché Orlando donna?), non sembrano giustificati in alcun modo da un punto di vista narrativo.
Il che confonde e ‘schizofrenizza’ il personaggio femminile forse più interessante di tutto il canone shakespeariano.
Lei che consapevolmente, e con coraggio, entra nello ‘spazio verde’ — qui foresta misteriosa e geograficamente non collocabile, abitata da fiere e parlatori occasionali e qualunquisti. Lei che deve farsi ‘uomo’ per dire agli uomini che amare è materia di sopravvivenza della specie. E ci riesce, faticosamente, e con onore, da ‘donna’.
Funzionano, ma in assenza di fluidità, anche qui, direttoriale, Celia — la sordomuta Nadia Nadarajah, che sostiene impeccabilmente l’amica-sorella, e Touchstone — uno straordinario Colin Hurley, nella sua mise à la Falstaff con clacson a trombetta e tempistica indimenticabile, e nel suo deliziarsi di una giunonica Audrey. E in una certa misura anche Jaques, capellone anni Settanta — il forse eccessivamente serafico Pearce Quigley.
Per farla breve, il pubblico ridacchia, una pinta di plastica in mano; ma in epoca ‘globale’ pare un’occasione mancata quella di ascoltare le storie che si consumano dall’altra parte del fiume. Potrebbe essere più interessante portare dentro al ‘globo’, che può ospitare fino a 1600 spettatori (la metà di quelli d’epoca elisabettiana), qualcosa di odore più umano e attualmente mondano, permettendo così al pubblico di rispecchiarsi e, shakespearianamente, pensare. L’entertainment non mi pare abbastanza. Forse neanche in un musical, ancorché semanticamente impeccabile.
D’altra parte, è nella politica di questa istituzione, che non riceve un centesimo dal governo, sostenere l’alfabetizzazione dei ‘groundlings’ attraverso il canone del Bardo. Certo, per lo più sono turisti. Però l’atmosfera è grandiosa.
Se mai farete una visita, scendete sì a Blackfriars, ma non fidatevi di Google Maps: superate il fiume dal Millennium Bridge. Coglierete ancor di più l’essenza dei due mondi.