Silvia Costa: E Dio si riposò il settimo giorno. Fenomenologia della famiglia creativa

Photo: Lorenza Daverio
Photo: Lorenza Daverio

In prima italiana, la performance prodotta da Fog – Triennale affianca diverse generazioni di una famiglia trovata sul territorio

L’arte come grimaldello per entrare nelle relazioni umane. La creatività come strumento per esplorare il vincolo che unisce le generazioni di una famiglia, e osservarne le dinamiche che la rappresentano.

In “E Dio si riposò il settimo giorno”, Silvia Costa, artista visuale con all’attivo diverse collaborazioni con Romeo Castellucci e la Socìetas Raffaello Sanzio (ormai solo più Socìetas), arriva a Milano per presentare, alla Triennale, un progetto interattivo che indaga il legame familiare.
Siamo all’interno della rassegna Fog, festival di Triennale dedicato alle più interessanti espressioni, italiane e internazionali, di teatro, danza, performance e musica.

Allo Spazio Education, in orizzontale, una grande tela bianca. Davanti alla tela, di spalle al pubblico, un bimbo di un anno sul passeggino. Accanto a lui tre donne: la mamma, la nonna, la bisnonna. Hanno tutti un pennello o una matita in mano. Un tavolino accanto alla superficie da dipingere è colmo di barattoli di colori d’ogni risma. E c’è anche la foto di un paesaggio. È grande come una cartolina. È stata scattata dal balcone della progenitrice.
Alle tre donne, il compito di riprodurla su tela. In scena, dunque, il piccolo Francesco Ghidoni, sua madre Silvia D’Autorio, sua nonna Adele Chianese e la bisnonna Caterina Migliaccio: sono una famiglia (trovata sul territorio, a Bollate) sicuramente più vera di quelle del Mulino Bianco, che per trovare l’armonia hanno bisogno di passare dal supermercato. Qui donne e bimbo interagiscono nella creatività. Che è un altro modo, raffinato, di procreare, cioè di fare staffetta con Dio.

L’interesse per questa singolare performance, che vede in scena persone comuni che non fanno dell’arte un mestiere (e neppure un hobby), è dovuta anche al fatto che la famiglia è quasi universalmente riconosciuta come via maestra per l’accesso all’individualità, alle modalità reattive primarie che connotano il comportamento dell’individuo. Perciò la famiglia opera, da un lato, come schema che costituisce il tramite tra l’individuo nella sua singolarità e l’individuo come elemento di quell’insieme complesso che è la società; dall’altro come il correlato di tutte quelle indagini che riguardano la formazione e normalizzazione dei comportamenti individuali.

Qui osserviamo come il bambino, assecondando l’inclinazione al piacere e alla curiosità, tenti continuamente di affrancarsi dal compito operativo catalizzando le attenzioni delle familiari. Che si dividono i compiti di accudimento, senza che questo freni per un attimo il completamento dell’opera. Facciamo i conti anche con le varie reazioni alle difficoltà del dipingere, nei passaggi dall’imitazione alla personalizzazione, al dialogo con la propria creatività e con l’imprinting che a ognuno deriva dal contatto con tutte le opere d’arte con cui è entrato in relazione. Qui notiamo che si osa a mano a mano che si scende con l’età, cimentandosi con difficoltà via via maggiori. Fino all’impulso anarchico, iconoclasta del bimbo, per il quale la sperimentazione è scoperta e l’esplorazione è gioco.

La performance contempla il valore della cooperazione e il riconoscimento della creatività e degli spazi altrui. Il lavoro è episodicamente puntellato dalla riproduzione delle voci fuori campo delle protagoniste, che illustrano il proprio rapporto con la casa di famiglia, dal cui balcone è stata scattata la foto, con il giardino intorno alla casa, con il parco delle Groane che fa da sfondo al giardino. Casa, giardino, panorama diventano radici, elementi identitari non meno importanti di quelli di sangue.
«Si conosce solo ciò che si ama» diceva Sant’Agostino. Le tre donne esprimono il proprio amore per il giardino, coltivato dagli uomini di casa. I frutti, gli ortaggi, i fiori. I profumi, il cielo, l’alternarsi delle stagioni. Le luci e i colori. E poi l’ulivo, piantato nel giardino oltre mezzo secolo fa, alla cui ombra sono cresciute tre generazioni.
Scriveva Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (“La luna e i falò”).

Alle emozioni, al gesto artistico, fanno da sfondo i suoni realizzati da Nicola Ratti. Essi sono commento sonoro e testuale. Riproducono una natura onirica, anche attraverso l’intarsio di strumenti a fiato come flauti e fischietti.

“E Dio si riposò il settimo giorno” è arte figurativa e performance. È psicologia familiare e dell’età evolutiva. È gioco e pedagogia. La libertà con cui Francesco, una volta giù dal passeggino, solca gattonando lo spazio scenico – cercando, lui solo, la relazione con il pubblico – rappresenta la spontaneità, l’evasione, lo sguardo irriverente di chi si sottrae alle regole. Non è questo, in fondo, il senso più autentico ed eversivo dell’arte?
Francesco cerca la fuga appropinquandosi all’unica porta trasparente della sala. Chissà che, fuori da essa, non veda un mondo migliore di quello che vediamo noi.

La performance termina. Donne e bimbo escono. Rimane davanti a noi il dipinto. Singolarmente, l’immagine, osservata da lontano, ricorda il “Campo di grano” di Van Gogh. I colori sono quelli della bandiera dell’Ucraina. A perturbarli non c’è un volo di corvi, bensì il nero di alberi spogli.
Ma la primavera è ormai nell’aria. Gli alberi si tingeranno di verde. Il giallo dei campi e il blu del cielo – lo speriamo ardentemente – saranno assai più brillanti dei colori spenti di quest’inverno sfibrato.

E DIO SI RIPOSÒ IL SETTIMO GIORNO
concezione: Silvia Costa
field recording, spazializzazione sonora: Nicola Ratti
collaborazione alla scenografia: Alessio Valmori
con la famiglia di quattro generazioni trovata in loco: Francesco Ghidoni, Silvia D’Autorio, Adele Chianese, Caterina Migliaccio
produzione: Voralberger Landestheater Bregenz
produzione italiana: FOG Triennale Milano Performing Arts

durata: 2h circa
applausi del pubblico: 2’

Visto a Milano, Triennale, il 19 marzo 2022
Prima nazionale

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