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Sirna/Pol e Jaha Koo a Short Theatre 19: tra solitudini e dinamiche relazionali

Jaha Koo - Cuckoo

Jaha Koo - Cuckoo

Puntuale, Short Theatre – diretto da Fabrizio Arcuri e Francesca Corona – apre la stagione romana del teatro. E addentrarsi nell’ex mattatoio romano di Testaccio è sempre una garanzia: oltre quelle tende nere tese a riprogrammare spazi, raramente deludono le proposte della breve e intensa rassegna (tre spettacoli/performance al giorno, più le installazioni e l’ormai tradizionale piccola roulotte del progetto in residenza OHT_Little Fun Palace). Tra i pezzi forti del programma non mancano autori di fresco canonizzati come il recente Leone d’Oro Alessandro Sciarroni o gli “Scavi” che Deflorian/Tagliarini avevano presentato anche all’ultimo Festival delle Colline Torinesi.

La serata di martedì è invece segnata dall’esordio de “I giardini di Kensington” di Valerio Sirna ed Elisa Pol, un duo nato proprio per la creazione di questo lavoro, già presentato in forma non compiuta, e ora finalmente perfetto.
È un testo scandito da una drammaturgia quasi a numeri chiusi, in cui gli scambi di battute sono alternati a introversi momenti coreografici o comunque a spazi in cui la musica ha un ruolo preminente sulla scena. Ed è un testo ingannatore, che inizia con una sorta di dialogo fra sordi, in cui non si capisce se i due protagonisti – conviventi, amanti stanchi e provati – dialoghino fra di loro o se stiano semplicemente parlando ciascuno per proprio conto nello stesso spazio, lasciando scivolare fuori di sé i propri pensieri.

I temi dell’incomunicabilità e della straziante lontananza delle anime danno l’illusione di trovarsi davanti a una sorta di ‘telefoni bianchi’ fuori tempo massimo, ma col passare del tempo si chiarisce sempre di più come il tema centrale dello spettacolo, portato alla luce con una serie ininterrotta di suggestioni e squarci tutti proposti al pubblico ma mai sciorinati in forma analitica, sia quello che Sirna ha messo al centro della sua attività con Leonardo Delogu e Dom–: quello dello spazio urbano. È la città la protagonista dei “Giardini di Kensington”, nei suoi volumi interni, quelli scavati tra mura e muri, nei corridoi e nelle stanze degli appartamenti, e negli spazi esterni, nei suoi confini con la campagna; la modifica della geografia rurale in geografia cittadina, il mutare delle pratiche e la cancellazione della memoria.
Così, ognuno dei due membri della coppia ricorda il proprio passato in funzione dei luoghi, e dei diaframmi che nell’infanzia hanno separato il proprio corpo dall’esterno (o non lo hanno fatto).
Il personaggio di Elisa Pol riconosce come il crescere in mezzo ai prati, con le croste alle ginocchia, spinga a pensare in modo radicalmente diverso; quello di Sirna ricorda il senso di protezione dello stare all’asciutto in tenda sotto un diluvio.

La scenografia sul palco è minima (una poltrona di pelle, una tenda canadese, una nuvola sospesa al soffitto), ma scelta con sottile gusto nei rimandi cromatici fra i pochi elementi in scena, e costruisce con le oculate scelte illuminotecniche di Mattia Bagnoli un mondo scenico preciso. La scelta delle musiche è del pari attenta, trascinante e quasi ammiccante.

Spiazzante è invece il finale di quello che è un testo di estrema sobrietà, di bruciante freddezza (anche nella recitazione tesa allo straniamento) e di disperazione quieta ma senza sconti: è un trasloco, in cui non è del tutto chiaro chi sia in partenza, se i due insieme o separatamente, né verso dove, né se veramente si troverà la forza di lasciare quello spazio comune, ormai liberato dai mobili, nudo, creato e marchiato dall’amore di una coppia, piegato dalle esigenze quotidiane, appannato dall’obbligo alla convivenza in una città dagli affitti esorbitanti.

Il palco che, appena un’ora dopo, si presenta allo spettatore di “Cuckoo”, del sudcoreano Jaha Koo, si costituisce di uno schermo per proiezioni e di un tavolo nero diviso in quattro parti affiancate una all’alta ed evidenziate da quattro stretti sagomatori dedicati ai protagonisti del lavoro: tre ‘cuckoo’, tradizionali cuociriso a vapore coreani, e l’autore/narratore.

“Cuckoo”, datato 2017 e già passato qualche settimana fa per Drodesera Festival, ha come argomento centrale la crisi finanziaria sudcoreana di metà anni ’90, alla quale dovette far fronte il Fondo Monetario Internazionale, dietro la garanzia di severe misure di risanamento (scontato il pensiero ai più recenti fatti di Grecia) e spalancando la strada all’ingresso indiscriminato di investitori statunitensi nell’economia industriale del Paese, da allora tenuta alla frusta come mai prima.

È un lavoro densissimo, che meriterebbe un’analisi puntuale sia dei rimandi interni al testo, sia del fitto contrappunto pubblico/privato di cui si nutre, costruito su un filo di tesa e orientale, trattenuta, disperazione, conseguendo un risultato composito ma equilibrato.

Questo essere composito deriva dalla molteplicità dei medium in scena, l’equilibrio dal loro fluido alternarsi e incontrarsi sul palco: il discorso (in due lingue) diretto da Jaha Koo al pubblico, i montaggi di spezzoni di telegiornali, i video documentari o di altro tipo, sulla scia del più tradizionale teatro politico, e un terzo inatteso veicolo, la voce infantile dei due cuociriso che, riprogrammati, si scambiano battute e insulti dal tavolo, mentre il loro terzo ‘collega’, di una generazione precedente, si occupa del lavoro sporco, la cottura, appunto.

Oltre a ciò, la ricostruzione storica della crisi è saldata, come si anticipava, a numerosi e talvolta assai intimi ricordi personali della vita di Koo, come la morte di alcuni degli amici più cari, spesso in seguito agli effetti della crisi o del suo violento risanamento.
Non mancano esplicite simbologie (dei tre cuociriso uno solo fa il suo lavoro, in silenzio), citazioni di statistiche, la proiezione di un vero, spaventoso investimento di un suicida da parte di un treno, l’acuta teorizzazione di uno spazio ‘sospeso’ tra l’isolamento e la vita pubblica, come quello delle sottili intercapedini fra treno e stazione nelle moderne e sicure linee automatizzate della metro – sottili ma non abbastanza perché non ci possa morire un uomo.

Conclude Cuckoo con un finale in cui, contraddicendo la preferenza dell’intero spettacolo per il registro verbale, è un’azione a prendere possesso della scena, un’azione-figura quanto mai eloquente della follia capitalistica: la paziente costruzione di parallelepipedi di riso, sovrapposti l’uno all’altro, fino a formare una torre che, fatalmente, crollerà, ma sulle cui macerie si riprenderà, dopo un brevissimo attimo di choc, a costruire, come nulla fosse, un altro edificio dal destino segnato.

I giardini di Kensigton
uno spettacolo di e con Elisa Pol e Valerio Sirna
disegno luci Mattia Bagnoli
elaborazione del suono Flavio Innocenti e Valerio Sirna
scultura di Mattia Cleri Polidori e Giulia Costanza Lanza
collaborazione tecnica Nikki Rodgerson / Mutoids
con il sostegno di Armunia Residenze Artistiche Castiglioncello, Nerval Teatro, Santarcangelo Festival, Atto Due – Laboratorio Nove, Spazio ZUT! Progetto Cura, Florian Espace Progetto OIKOS
un ringraziamento a Barbara Bessi
progetto finalista premio Scenario 2017

durata: 60’
applausi del pubblico: 2’

 

 

Cuckoo
concept, direzione, testo, musica e video Jaha Koo
performance Hana, Duri, Seri e Jaha Koo
cuckoo hacking Idella Craddock
scenografia e media operation Eunkyung Jeong
consulenza drammaturgica Dries Douibi
produzione Kunstenwerkplaats Pianofabriek
produttore esecutivo CAMPO
co-produzione Bâtard Festival
Sostenuto da CAMPO, STUK, BUDA, DAS, SFAC e Noorderzon/Grand Theatre
Cuckoo è stato realizzato con il sostegno di Vlaamse Gemeenschapscommissie

durata: 60’
applausi del pubblico: 3’

 

 

Visti a Roma, Pelanda, il 10 settembre 2019

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