Quando ogni cosa è al posto giusto il teatro regala momenti di grazia assoluta.
Primo tra gli ingredienti a creare la meraviglia in questo “Sogno d’autunno” è sicuramente il testo. Jon Fosse, classe 1959, è una delle voci più importanti della letteratura e della drammaturgia contemporanea. Norvegese della piccola cittadina portuale di Haugesund, è considerato uno fra i 100 geni viventi, un Ibsen contemporaneo.
“Draum om Hausten” risale al 1998. In Italia fu messo in scena nel 2011 dal Piccolo Teatro di Milano per la regia di Patrice Chéreau; ora questa nuova produzione dello Stabile di Torino.
La scrittura di Fosse – che Klp aveva intervistato, durante un suo soggiorno a Roma, nel 2009 – è apparentemente scarna, dai tempi sospesi, su cui aleggia il concetto di “non detto” (“sono le parole singole, poche parole, quelle semplici e basilari, a dire le cose fondamentali, non la retorica, non le grandi frasi”, aveva appunto raccontato a Klp in quell’incontro romano). Eppure ogni cosa arriva diritta là dove deve arrivare. A colpire e schiaffeggiare la nostra anima, che ritrova ad ogni istante un sussulto.
“Sogno d’autunno” è una storia non-storia. Un sogno, appunto, in cui ci si perde, nel goffo tentativo di trovare un punto fermo, una verità.
Un uomo e una donna si incontrano. Si ritrovano dopo anni (o forse dopo soli 10 minuti? O mai?). Tutta la pièce gioca sul concetto di mancata esistenza di una verità assoluta. Di una storia con un inizio e una fine.
Si erano amati e poi persi, e oggi ricordano e ritrovano nella vergogna le pulsioni di allora. O forse no, forse lui ha davvero avuto il coraggio di lasciare moglie e figlio per inseguire la passione per lei. Lasciare tutto, anche padre e madre. E passato. E vita vissuta in altro tempo.
Il cimitero, la morte, racchiudono il senso di un passaggio doloroso ad altro. Un inutile ed estremo tentativo di essere vivi, un grido per la vita, per non morire. Amore, vita, morte: c’è tutto in “Sogno d’autunno”. C’è l’essenza dell’esistenza umana, quella reale, che non ha lieto fine come nei film d’appendice; e quella in cui si invecchia perdendo di vista quali sono le priorità e i valori.
La scena si apre su un cimitero. Al centro una enorme pietra tombale nera. Le lapidi attorno sono rappresentate da sedie: ogni sedia una candela, una foto, un fiore. Al centro una panchina.
Sarà lì, su quella panchina, che si ritroveranno l’uomo e la donna: lei, Giovanna Mezzogiorno; lui, Michele Di Mauro. A loro il compito di trasportarci nella storia.
Jon Fosse, che domina su tutto, non può che essere interpretato così, senza fronzoli, senza passioni che scardinano. Un valzer di dolori ed amore non detti. Si raccontano la vita, la solitudine, lo squallore. Si toccano ma con la paura di toccarsi. Lui troppo borghese, lei schiva e allo stesso tempo assillante, nel suo bisogno di riappropriarsi di qualcosa che non ha vissuto.
La scena gira. Dietro alla pietra tombale si nasconde l’interno di una cucina. Qui padre e madre di lui si apprestano ad andare al funerale della nonna paterna. Ancora una volta il tempo perde la sua consistenza. La madre, una mirabile Milvia Marigliano, urla contro quel figlio che ha abbandonato la famiglia per stare con una nuova compagna.
Seduti al tavolo della cucina si consuma la tristezza di due vecchi, rimasti soli a combattere la noia e la ripetizione degli stessi gesti. Una vita alla finestra. Un recriminare materno esasperante ed insistente contro quell’unico figlio fuggito. Un lodare continuo una nuora (Teresa Saponangelo) che, sola, ha cresciuto un ragazzino senza padre.
E quando tutti e quattro si ritroveranno sarà un incontro che riporta tutti indietro. Sarà il tempo dell’accusa, del tutti contro tutti. Nel tentativo di ritrovarsi, si urleranno rancori malriposti che il tempo non è riuscito a sedare.
Sulla panchina, lui, lei, padre e madre diventano simbolo di umanità che naufragano. Di famiglie e coppie alla deriva.
Sarà ancora il tempo a decretare la fine della storia. Senza spiegazioni su cosa realmente sia successo, saranno le tre donne a chiudere la scena, ad accompagnare quelli che non ci sono più, unite da un dolore non svelato e, forse, da un amore non saputo.
La regia di Valerio Binasco restituisce perfettamente il tempo sospeso di Fosse, che trova la propria forza nei silenzi, nelle pause, nei gesti abbozzati che raccontano anche ciò che non viene espresso.
Per Binasco è la quinta messinscena dai testi dello scrittore norvegese. E si intuisce, in questo “Sogno”, qualcosa che va ben oltre la profonda conoscenza dell’autore, un bisogno di confrontarsi con quel mondo fatto “di pietà e di fato” che Fosse racconta.
La regia è incentrata su quello che Binasco definisce un “mondo di sottrazione”, in cui tutti i fronzoli sono lasciati fuori dalla scena, e dove il “non detto” diventa il “dire”.
Giovanna Mezzogiorno, stretta in un lungo cappotto, incarna l’icona della donna in continua oscillazione tra ricerca di tenerezza e rancore, fra il chiedere e il dare. Michele Di Mauro è l’immagine dell’uomo medio borghese incapace di prendere posizione con sé stesso e con il mondo fuori di lui.
Si muovono sulla scena, il cimitero-casa costruito da Carlo De Marino, con la lentezza e la fatica che Fosse richiede, entrambi bravissimi a condurci in quella terra di nessuno racchiusa nel testo.
Nicola Pannelli e Milvia Marigliano, padre e madre (entrambi hanno fatto parte della Popular Shakespeare Company di Binasco), riescono a farci sorridere nel loro reinventare una famiglia al limite del “bordo”. La Marigliano ci farà perfino ridere nell’interpretare quella madre/suocera che nessuno vorrebbe avere, e che pure riflette ancora una volta la dimensione della disgregazione del concetto di famiglia e di coppia.
“Sogno d’autunno” trascorre in un battito d’ali. E si esce da teatro in stato di grazia. L’unico consiglio è andare a vederlo. Fino al 2 aprile a Milano, al Franco Parenti.
SOGNO D’AUTUNNO
di Jon Fosse
con Giovanna Mezzogiorno, Michele Di Mauro, Milvia Marigliano, Nicola Pannelli, Teresa Saponangelo
regia Valerio Binasco
scene Carlo De Marino
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
assistente alla regia Maria Teresa Berardelli
produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
realizzata con il sostegno di FENICE, società appartenente a Edison
foto di Bepi Caroli
durata: 1h 30′
Visto a Torino, Teatro Carignano, il 3 marzo 2017
Prima nazionale