È una calda domenica di maggio a Milano e, assiepati presso la porta del Teatro i, a pochi passi dalla nuova Darsena e dai Navigli, si attende il sipario. Sono le cinque del pomeriggio e il teatro, a pochi minuti dall’inizio, è quasi completamente pieno.
In cartellone c’è “Solo di me. Se non fossi stata Ifigenia, sarei Alcesti o Medea”, secondo spettacolo della dramaturg Francesca Garolla, in residenza permanente al Teatro i dove, da poco, è andato in scena anche il primo capitolo della sua trilogia, “N.N. Figli di nessuno”.
Il secondo testo di Garolla segna un traguardo importante per l’autrice, scelta tra gli spettacoli selezionati della prossima edizione del Festival di Avignone all’interno della rassegna Face à Face Parole d’Italia per scene di Francia. Il testo è inoltre in corso di traduzione nella Repubblica Ceca.
In scena impalcature di legno, file di sedie, luci bianche al neon e i grandi fari, elementi ricorrenti nelle scenografie dell’autrice, per un palcoscenico quasi inutilizzato, come se ogni testo fosse un teatro nel teatro e i suoi personaggi al tempo stesso attori e spettatori di quello che la vita ha riservato loro.
Sembra di essere in un cinema d’altri tempi, con un orologio ormai fermo. Da un lato Alcesti, eterea, il volto ricoperto dal cerone, bellissima come la voleva Euripide e vestita di nero, dall’altro Medea, intrappolata in un tailleur maschile, capelli rossi e selvatici. Poi la piccola Ifigenia, quasi inopportuna, sgangherata, una donna in divenire, da modellare.
Lo spettacolo, che vede in scena Anna Della Rosa, Paola Tintinelli e Anahì Traversi, prende le forme di uno studio d’anatomia, una riflessione propedeutica all’esistenza al femminile, che parte inevitabilmente dall’aspetto fisico.
Alcesti e Medea vivisezionano Ifigenia passando al vaglio ogni centimetro: “La taglia? I capelli, come sono i capelli? E le mani? E i fianchi, forse non sono adatti, sono troppo stretti, troppo esili, e agli uomini piace stringere qualcosa durante la notte”. Perfette istitutrici, depositarie di secoli d’esperienza, le due si propongono come modello, fonte d’ispirazione, uniche strade concesse.
Alcesti, “brava e bella, bella e buona, buona e saggia, saggia e santa”, simbolo dell’amore coraggioso e sintesi delle virtù femminili per eccellenza, moglie di A, ovvero Admeto, che sceglie di morire per farsi amare in eterno, per restare la sola, la donna che per il marito donò il pianto e la vita. O Medea, “estranea ai fatti che mi si contestano e ai luoghi che ho abitato, estranea alla colpa e ai lutti”, moglie di Giasone, assassina dei figli, per sottrarli a un destino di inevitabile mediocrità, di compromessi, di squallide mezze misure, “perché non sappia decidere volta per volta, a tappe, a passi parziali eppure significativi, io non lo so. Perché debba arrivare al nulla, alla demolizione totale, alla resa o alla catastrofe, io non lo so”.
Al centro Ifigenia, fuori dal tempo e dal mito, che oppone l’umanità all’archetipo, i chiaroscuri e i difetti alla perfezione esatta di Medea, una concezione personale di femminilità all’aura materna e all’ideale di Alcesti.
Vivere eroicamente, ma non da eroine, accontentarsi dell’ammirazione di tragediografi secenteschi, restare eterna grazie al proprio nome sul frontespizio di una pièce di teatro.
Il fantasma del sacrificio pretende attenzione, come se fosse indispensabile relazionarsi alla figura maschile per accedere all’esistenza: madre di, figlia di, moglie di, farsi appendice per poter essere. Una lotta tra due modi di essere donna, che si traduce nell’eterna dicotomia tra la realizzazione personale, l’espressione della propria creatività, e il desiderio di restare al fianco di, la tendenza ad annullarsi, a fare da scudo e riflesso, esserci per qualcuno per cui valga la pena di perdere un treno.
L’eliminazione precauzionale, il suicidio preventivo, sembra essere l’unica via d’uscita. “Non ci saranno figli dimenticati nella vasca da bagno né donne più belle di te. Non ci saranno anni che passano, decisioni sbagliate, promesse da mantenere ad ogni costo. Nessun errore. Mai. Noi ti diamo la possibilità di non sbagliare”. Un ultimo slancio di umanità lascia Ifigenia sola in scena, finalmente autonoma di scegliere il proprio sacrificio, consapevole dell’impossibilità di una conciliazione. Medea o Alcesti? Piuttosto nulla, nessuno, ancora la morte.
La regia di Renzo Martinelli, l’originale caratterizzazione dei personaggi, la scrittura scenica, a metà tra la declamazione epica e la narrazione, coinvolgono e immancabilmente inducono all’identificazione. Si ripete l’incantesimo dell’archetipo, ancora una volta sembra più facile riconoscersi in un modello, avvicinarsi a un ideale, che non esplorare le proprie sfumature individuali. Forse è proprio questo che si porta a casa: quasi la necessità di approfondire la riflessione da soli, al di là del mito e della deriva a tratti femminista del testo. Quel scoprirsi non Alcesti, non Medea, neppure Ifigenia, semplicemente essere umano, diverso, altro.
SOLO DI ME. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea
di Francesca Garolla
regia: Renzo Martinelli
con: Anna Della Rosa, Paola Tintinelli, Anahì Traversi
suono e video: Fabio Cinicola
luci: Mattia De Pace
durata: 1h 30′
Visto al Milano, Teatro i, l’11 maggio 2015