Ospite alla Triennale di Milano per FOG, lo spettacolo pluripremiato della compagnia di danza di Barcellona, consacrata al Festival d’Avignon 2021
Capita raramente allo spettatore adulto di oggi, vagamente navigato o presuntuosamente “educato” alle infinite possibilità della scena del teatro contemporaneo, di restare senza respiro, scosso, perturbato dallo spettacolo a cui ha appena assistito.
Una di queste occasioni è stata sicuramente l’incontro del pubblico della Triennale di Milano con “Sonoma”, lo spettacolo del coreografo Marcos Morau per la sua compagnia La Veronal, ospitato nella programmazione FOG.
Nato nell’estate 2020, subito dopo la primissima ondata di pandemia che ha scosso il mondo, “Sonoma” è lo spettacolo pluripremiato che ha consacrato Morau alla fama internazionale, alla celebrità e al riconoscimento dopo comunque molti anni dalla fondazione (nel 2005 a Valencia) della sua compagnia.
I motivi di un così clamoroso successo, per Morau e compagnia, ma soprattutto per le sue produzioni (tra cui ricordiamo la irresistibile quanto ammaliante “Pasionaria” in scena di recente al Bellini di Napoli) sono l’istituzione di un linguaggio scenico che attinge da una cassetta del mestiere inconsueta e inesauribile: Morau non nasce infatti come coreografo né danzatore, ma viene dalla fotografia, dalla regia, dal teatro.
Come molti altri geni della scena e della danza – ma non solo –, il suo genius peculiare è quello di uscire dai tecnicismi della composizione coreica (proprio perché non vi appartiene prettamente) e ibridare molte altre forme, caratterizzato da un personale e riconoscibile gusto e talento nella creazione di immaginari nuovi, sempre diversi e ben delineati in ogni produzione, che attingono ad un universo visuale che unisce il pop e il colto, l’alto e il nazionalpopolare, elementi distanti anni luce che trovano il loro perché nella realtà dei suoi allestimenti, a creare microcosmi allucinati e impossibili che sono delle vere e proprie perle lucenti di arte e artisticità.
“Sonoma” è, in tutto e per tutto, una creatura del suo autore. Si fa fatica a chiamarlo soltanto spettacolo di danza, o soltanto teatro fisico. Si fa fatica a dargli un’etichetta, a capire davanti a cosa ci troviamo, e non si capisce perché ci si pongano queste domande. Al suo interno coabitano recitazione, canto, suono dal vivo, oltre a una danza di rara qualità, senza soluzione di continuità.
Le interpreti sono nove donne straordinarie, aliene, angeliche e luciferine.
Se concepiamo il titolo “sonoma” come una strana crasi fra suono e corpo (sonus e soma), in assonanza con “sodoma”, ci aspetteremmo una pièce che omaggi appunto questi due elementi, che sono la base della performance dal vivo; eppure, in primo piano è la figura della donna, non tanto come entità corporea, non come un corpo o identità di genere da omaggiare tout court, quanto il femminile come categoria del mito, che raccoglie un immaginario più o meno vasto di referenze a cui il coreografo strizza l’occhio: se da subito vediamo le donne ai piedi della croce di Gesù, chine a legarne corde e chiodi, esse diventano prefiche, poi amazzoni, poi educande in candidi vestiti bianchi vittoriani, e ancora idoli sacri con i copricapi di gigli bianchi, come delle madonne in processione, oppure contadine con il fazzoletto in testa, in altri momenti un po’ ancelle vestite da Frida Kahlo, un po’ modelle da copertina patinata.
È proprio la fotografia e il ritratto fotografico di moda uno dei rimandi più forti e concreti in questa messa in scena: a partire dalla scelta di usare i pannelli fotografici, come in un set da studio, montati su ruote, luci-lampada, oppure casse nere da teatro con le ruote, vero materiale di attrezzeria che diventa elemento scenico fondamentale. Gli ingredienti del lavoro quasi artigianale del teatro diventano il mezzo con cui realizzare il gioco meta-teatrale, che non è solo sotteso a tutto il lavoro, ma piuttosto ne è l’habitat stesso, su cui nasce e si sviluppa.
Persino il disegno luci percorre una sorta di strada, se non narrativa sicuramente espressiva, iniziando con una quasi fastidiosa penombra (all’inizio si fa veramente fatica a vedere cosa succede sulla scena) per passare ad un rosso avvolgente e soffocante, che letteralmente cade dall’alto (il “soffitto” luminoso scende fisicamente in diversi momenti a schiacciare la scena), passiamo per un effetto strobo molto aggressivo, un disvelamento di un fondale “a sorpresa” (un dipinto di una scena boschiva con molte varietà di uccelli selvatici) fino al bianchissimo quadro del finale, una bianca e sparatissima luce che apre sulle vestali in bianco, con molti fiori bianchi e tamburi esageratamente grandi, bianchi anch’essi.
Le scelte estetiche sono molteplici, molti i cambi di costume, moltissimi i quadri proposti. Come se dirigesse una fantasiosa macchina delle moltiplicazioni, Marcos Morau, sulla falsariga dell’operato di molti autori contemporanei (da Romeo Castellucci a Peeping Tom a Dimitris Papaioannou), inscena una versione più che aggiornata del TanzTheater di Pina Bausch, secondo una logica che è più cinematografica che teatrale, ovvero costruendo per segmenti, anche molto disparati, e assemblandoli secondo le regole del montaggio, dell’editing video, creando un artefatto visivo sincopato e polimorfo che risuona nel corpo, negli occhi e nella memoria dello spettatore-testimone.
Anche le tematiche sono molte, se ne perde la conta e ci si perde nella pluralità delle narrazioni proposte: la religione, la giovinezza, la fertilità, la rivalsa dell’uomo sulla natura, l’infanzia, la procreazione, la vecchiaia, la morte, il rito, la paura… ognuna di queste con la propria proiezione in scena, tramutata in gesto, parole, canto, suono.
Tra queste tornano diverse volte quelle della morte e della vita, ad esempio quando due danzatrici emergono dal fondale indossando due grossissime maschere da donna anziana, da vecchia nonna-strega, due “Baba jaga” in nero che spariscono, rinchiuse, nella cassa nera dell’attrezzista, che da lì in avanti diventerà bara, simbolo di morte, e su cui in finale verranno disposti i copricapi floreali delle vestali, opulenti, decadenti, perfettamente appoggiati come in un set fotografico di Dolce e Gabbana, in cui la bellezza altera e sfuggente delle interpreti si fonde con il tradizionale, il folklorico, il sacro. Il tutto allestito su un terreno di partenza che viene percepito come ancestrale e primitivo, proponendo uno sguardo quasi antropologico su un ventaglio vastissimo di immagini e situazioni che si generano e svaniscono nello spazio della scena.
Un ulteriore elemento da sottolineare, oltre alla genialità e all’efficacia espressiva dei bei costumi, sono gli utilizzi delle ampie gonne: nella prima sezione, ad esempio, quando le danzatrici scivolano a lungo sul pavimento come nella danza “Beriozka”, in cui le donne sembrano volare veloci senza muovere i piedi, dando l’idea di essere conturbanti e compiacenti fantasmi di carne e ossa.
E poi ancora nella sezione finale, quando le danzatrici si apprestano a girare vorticosamente facendo aprire e roteare le leggere gonne bianche, che si gonfiano in aria come trottole di carta, una skirt dance dinamica che è un gioco e un numero di fantasticheria teatrale, ancor prima di un pattern coreografico e compositivo. Perché il primo intento di Marcos Morau sembra essere proprio questo: intrattenere, ammaliare, meravigliare, creare stupore, e il senso ludico è un escamotage azzeccato ed efficace per raggiungere i suoi scopi. Allo stesso modo si fa uso della sensorialità uditiva, traboccante di elementi eterogenei, partendo dal suono digitale più elettronico, al pianto moltiplicato di uno e più neonati, fino alle note disseminate del “Prelude à l’après-midi d’un faune” di Debussy, la musica iconica di un balletto storico a cui tutta la danza moderna occidentale deve così tanto.
Anche l’ecletticità delle “danz-attrici” va nella direzione dello stupore dello spettatore, così come la ricerca delle figure della coreografia, volta costantemente a cercare e a trovare la novità, il desueto, il singolare attraverso le soluzioni più disparate e originali, come le molte composizioni “a canone” o le lunghe catene orizzontali che formano intrecci dinamici che danno l’illusione di essere linee sinuose e infinite.
In conclusione, “Sonoma” è uno spettacolo terribilmente ricco, barocco, colmo e quasi opulento, la cui composizione iper-elaborata riesce a non eccedere né a stroppiare mai perché concertata con grande cura e abilità dal suo maestro-autore, trapezista e funambulo – se non “genio” come qualcuno tra gli spettatori in piedi agli applausi suggeriva – di una creatività traboccante, sul filo di una bellezza al contempo raffinata e tribale, costruita e sincera, innocente e demoniaca, languidamente mortifera e vibrantemente vivida.
SONOMA
ideazione, direzione artistica: Marcos Morau
coreografia: Marcos Morau (in collaborazione con i danzatori)
danzatori: Alba Barral, Angela Boix, Julia Cambra, Laia Duran, Anna Hierro, Ariadna Montfort, Núria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodríguez
testo: El Conde de Torrefiel, La Tristura, Carmina S. Belda
répétiteurs: Estela Merlos, Alba Barral
consulenza artistica e drammaturgica: Roberto Fratini
assistente vocale: Mònica Almirall
direzione tecnica, luci: Bernat Jansà
direttore di scena, oggetti di scena, effetti speciali: David Pascual
suono: Juan Cristóbal Saavedra
voce: María Pardo
scenografia: Bernat Jansà, David Pascual
costumi: Silvia Delagneau
sartoria: Ma Carmen Soriano
modisteria: Nina Pawlowsky
maschere: Juan Serrano (Gadget Efectos Especiales)
creazione giganti: Martí Doy
oggetti di scena: Mirko Zeni
produzione, logistica: Cristina Goñi Adot
direzione di produzione: Juan Manuel Gil Galindo
coproduzione: Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Tanz im August/HAU Hebbel am Ufer, Grec 2020 Festival de Barcelona (Institut de Cultura Ajuntament de Barcelona), Oriente Occidente Dance Festival, Theater Freiburg, Centro de Cultura Conde Duque, Mercat de les Flors, Temporada Alta, Hessisches Staatsballett (nell’ambito di Tanzplattform Rhein-Main)
in collaborazione con: Graner (Fàbriques de Creació), Teatre L’Artesà
con il sostegno di: INAEM, Ministerio de Cultura y Deporte de España, ICEC, Departament de Cultura de la Generalitat de Catalunya
spettacolo beneficiario: progetto di cooperazione transfrontaliera PYRENART (nell’ambito del programma Interreg VA Spagna-Francia-Andorra POCTEFA 2014-2020 – Fondo europeo di sviluppo regionale FESR) Con il supporto di Instituto Cervantes Milán
Durata: 1h 15’
Applausi del pubblico: 6’
Visto a Milano, Triennale – Teatro dell’Arte, il 2 aprile 2023