
Io vive nell’anonimato della mancanza di memoria. Io non è il suo vero nome, è come ha deciso di chiamarsi per non dimenticarsene.
Io legge da fogli di carta sottolineati, scarabocchiati, evidenziati, appoggiati su un leggio o tenuti fra le mani. Legge perché ha scritto, perché il dottore gli ha detto: “Si segni quello che mi racconta, prenda appunti, così si costruirà una memoria!”.
Una memoria?
Io pensa a se stesso per pochi istanti, poi scompare in una nebbia fatta di altro. Vacillano ricordi che legge come ci fosse un pubblico ad ascoltarlo, un pubblico che può chiedergli ciò che non gli è chiaro, Io lo spiegherà.
Io ricorda di essere stato in una Chiesa, aveva sette/otto anni, faceva molto freddo e si era così pochi che a vedersi in un circolo Arci sarebbe stata la stessa cosa, ma si era in quella Chiesa e lui si domandava: “Perché ci troviamo qui quando potremmo fare la stessa cosa altrove?”.
Poi aveva alzato la testa e si era accorto della meraviglia, la volta era così alta da rimanere con la testa a penzoloni a guardare su finché non veniva il torcicollo. E a forza di guardare Io e i suoi amici avevano scorto una rete, messa lì forse perché gli angeli non cadessero, o perché Gesù non scappasse – “perché Gesù ci serve sulla Terra” – o forse perché l’intonaco non crollasse sul piccolo gruppo di fedeli.
E oltre la rete due passerotti volavano, si rincorrevano cinguettando, “sono felici” pensava Io, ed era felice a pensare che loro fossero liberi, finché non si era accorto che erano intrappolati tra la rete e la volta della Chiesa, e quelli che lui credeva canti di gioia erano grida di disperazione.
Quest’immagine, che in verità chiude lo spettacolo, crea un ponte tra la storia sincopata del protagonista e gli occhi del mondo su di essa. Per un verso Io è un uomo libero, un uomo senza memoria, che non vive il peso del passato né gli echi di ciò che lo ha reso triste, come quando si consola all’idea di dormire e di risvegliarsi senza ricordare che il tram sul quale era salito coi suoi amici Dax, Sax e Igor non sarebbe mai arrivato a Cuba.
Ma Io è anche un uomo intrappolato nella sua incapacità di parlare, nel silenzio che impera quando l’ultima riga dell’ultimo foglio è letta, il foglio posato sul tavolo, gli occhiali a fianco, gli occhi muti. Attraverso di lui parla una realtà che gli è estranea, se non per i lampi del vissuto che riemergono.
Il testo non indugia sulla sua posizione nella società, ma è facilmente immaginabile l’emarginazione di cui debba soffrire un individuo vittima di un presente sul quale nulla si costruisce perché nulla si ricorda non appena passa.
La storia è ispirata a quella di uno dei pazienti di cui parla Oliver Sacks in “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, ma proprio per l’emarginazione di cui Io soffre, un parallelo si può creare anche con il racconto fantascientifico scritto nel 1959 da Daniel Keyes, “Fiori per Algernon”, nel quale un ragazzo ritardato viene usato come cavia per la somministrazione di una cura per l’intelligenza: questa avrà effetti prodigiosi ma temporanei, e quando svaniranno il giovane, memore del suo periodo da genio, vivrà nella dolorosa consapevolezza della sua stupidità.
Il testo è scritto a quattro mani dall’attore torinese Massimo Giovara e dal regista Giordano V. Amato.
Meticoloso nel misurare l’equilibrio delle sue intonazioni, Giovara riesce a far vibrare il delirio di Io nella mente di chi ne segue la voce e l’alternarsi rapido degli occhi tra il foglio letto e il vuoto. L’attore è come inghiottito dal testo: quello che racconta è così forte che quasi scompare. Giovara sa farsi canale di ciò che è scritto. In un lungo monologo, presta la sua voce alle modulazioni dell’animo del protagonista, svelando un’ampia varietà di registri: dall’incerta cadenza di Io, che timido distilla i suoi ricordi caleidoscopici, ai ruggiti grossolani e ai commenti canzonatori degli amici Sax, Igor e Dax.
Il bello dello spettacolo è lasciarsi coinvolgere nel delirio di parole che scavano ricordi e attraversano immagini sempre diverse: nel corso di una frase passiamo così da un ippodromo a una corsa a cavallo lungo la collina, per poi precipitare nell’amplesso consumato nel bagno di una pizzeria, con un reggiseno che blocca la porta mentre fuori la gente grida: “Viva gli sposi!”.
SOPRA LA RETE
con: Massimo Giovara
regia: Giordano V. Amato
drammaturgia: Giordano V. Amato e Massimo Giovara
coproduzione: Il Mutamento Zona Castalia / ‘O Zoo No
durata: 60′
applausi del pubblico: 30”
Visto a Torino, Sala Gabriella Poli – Centro Studi Sereno Regis, il 21 dicembre 2013