“Per ottenere una verità qualunque sul mio conto, bisogna che la ricavi tramite l’altro.
L’altro è indispensabile alla mia esistenza così come alla conoscenza che io ho di me”.
(Jean-Paul Sartre)
In apertura di Città Balena, la programmazione estiva di Teatro i, pensata per estendersi negli spazi del quartiere milanese e contaminare luoghi inediti, siamo stati spettatori di “Souvenir di Milano. Ho messo le tue scarpe”, terzo capitolo del progetto “Su l’Umano Sentire” e ritratto del quartiere Conca dei Navigli.
“Su l’Umano Sentire” è un’installazione teatrale per video e parole che, come recita il sottitolo, è da leggersi come “un unico libro per più capitoli”. Idea e creazione sono di Officina Orsi, compagnia-progetto di Rubidori Manshaft e Paola Tripoli, con sede a Lugano, che unisce le specificità dei percorsi artistici delle fondatrici all’interno di un ricerca teorica e pratica sui possibili innesti tra teatro, arti performative, installazioni e poesia visiva.
Ogni capitolo è pensato per mezzo di una drammaturgia originale site-specific che opera sui materiali scenici e visivi raccolti e attinti dalla comunità del luogo per la composizione di una finale narrazione corale.
E’ un’esplorazione antologica dell’animo umano, del singolare stare al mondo di ciascuno, témoignages dai molteplici volti di quell’“ansia senza vita che più serve a stare in vita” (la citazione di Pasolini si ritrova nel capitolo “Desideria/(Disigìu)” realizzato a Cagliari).
Tra le analogie e le irriducibili differenze che si riscontrano nelle testimonianze provenienti dai diversi luoghi e narratori (ed è anche all’affascinante dicotomia “universale/particolare” dell’esperire a cui guarda, in fondo, il progetto), “Su l’Umano Sentire” si è aperto con “Souvenir di Lugano. Ricordo di Lugano”, raccolta antropologica di ricordi di singoli cittadini del capoluogo ticinese, indagando la dimensione collettiva della memoria e il tema della resistenza all’oblio.
Segue “Maneggiami con cura”, sul tema della mancanza, sulle sue molteplici definizioni e sul vuoto pieno dell’attesa.
In “Souvenir di Milano” le proiezioni avvengono su due schermi laterali e frontalmente sul muro a vista della stanza, spoglia, che si affaccia sul cortile di Teatro i. Si accendono gli schermi, scorre l’immagine veloce di Manshaft che attiva il computer (si è intimamente dentro al processo, la quotidianità stessa della creazione si fa elemento scenico, un gioco a più livelli di metanarrazione). Manshaft ne condivide il desktop e si apre Google Earth, avvicinandoci a colpi di mouse al quartiere Conca dei Navigli.
Il progetto è stato realizzato attraverso ricordi e racconti dei suoi abitanti. Partito con una call, si è poi diffuso per passaparola, presumibilmente sull’onda della curiosità e del desiderio di dare protagonismo inedito e carattere extra-ordinario alla propria e più ordinaria quotidianità, di essere insomma interpellati come soggetti narranti. “Quando inizi a filmare, io parlo”, dichiara uno dei volti ripresi da Manshaft. Alcuni si osservano disorientati dal clima da “casting” (che casting non è), mentre altri trovano un’immediata confidenza espressiva.
Ascoltiamo l’audio in cuffia, in un rapporto di interazione solipsistico ed individuale con le immagini. L’eterogeneità delle voci – maschili, femminili, anziane, infantili – è inframmezzato da musiche che giocano su un registro ironicamente nostalgico, dall’inno d’Italia a “O mia bela madunina”, infine Enzo Jannacci con “Vincenzina e la fabbrica”, cantata da una delle intervistate.
La storia di Conca dei Navigli è la storia ormai nota di molti processi di trasformazione urbana a cui si assiste parlando di ‘gentrification’, di fenomeni di inflazione, di riqualificazione.
Un tempo “rosso”, popolare, malfamato, zona di prostituzione, oggi il quartiere è definito radical-chic e il caro affitto è un tema ricorrente. Un lungo dibattito sulle feci dei cani abbandonate irresponsabilmente nel parco di quartiere (dibattito intrapreso quasi universalmente con piglio scientifico) si alterna ai racconti leggendari sul periodo di latitanza di Vallanzasca proprio in via Gaudenzio Ferraris, agli anedotti sul locale della signora Lina (una delle istituzioni di Conca dei Navigli), al senso di smarrimento per una nuova solitudine per l’atomizzazione delle relazioni sociali, alla perdita dell’immediatezza aggregativa che si viveva un tempo.
Il risultato è piacevole e coinvolgente, coltivato con semplicità ai fini di una accessibilità trasversale ai contenuti e alla forma, per un’installazione che vuole essere testimonianza, senza tuttavia rinunciare a quei tratti di teatro partecipativo già incontrati in Roger Bernat con “Numax-Fagor Plus” e, più significativamente, in “Perhaps all the dragons” della compagnia Berlin al Festival Internazionale del Teatro di Lugano di cui Paola Tripoli è direttrice artistica.
Dei tratti estetici e delle intenzioni di questo “teatro partecipativo”, che vede la comunità nel duplice ruolo di protagonista e pubblico, troviamo alcuni spunti di riflessione anche nel volume “Sguardi sul contemporaneo. Le scritture del reale, edito da Cue Press, e parte de I Quaderni del Fit, pubblicazione che raccoglie alcuni preziosi contributi di drammaturghi e critici alla luce delle istanze emerse nel corso dell’ultima edizione del festival, e che attraversano poetiche e istanze narrative indagando le novità dei linguaggi.
Una citazione da “Dentro la trasfigurazione – Il dispositivo dell’arte nella cybercultura”, scritto da Luisa Valeriani per l’editore Meltemi, viene in soccorso come introduzione:
“L’Occidente ha fondato i linguaggi del potere e della scrittura sul modello del mito platonico della caverna, secondo cui la conoscenza è faticoso cammino di astrazione dall’ingannevole esperienza sensibile. Tuttavia, la cultura delle nuove tecnologie, della rete e dei consumi mette in crisi tale modello, richiedendo una continua performatività dell’esperienza in una risposta immediata con l’altro che trasforma e produce non più oggetti, ma processi”.
I processi, dunque. I processi come oggetto di narrazione, ovvero la trasformazione di Conca dei Navigli in “Souvenir di Milano”, ma anche come struttura narrativa, ad esempio il site-specific di “Su l’Umano Sentire”, e come elemento che investe più ad ampia scala anche le riflessioni sulle attuali definizioni di drammaturgia:
“La drammaturgia è parsa uscire dai confini dell’essere principalmente un testo da dire/agire e si è delineata più come una strategia o un insieme di strategie che mirano alla rappresentazione chiara di un concetto ed ingaggiano lo spettatore su piani diversi, utilizzando linguaggi e forme di espressione che superano la figura stessa dell’attore o del testo in senso classico”.
Lo scrive la dramaturg Simona Gonella in “Sguardi sul contemporaneo”, ove si menziona il progetto di Tripoli e Manshaft in riferimento all’interessante trasformazione dello spettatore-cittadino in attore, secondo quella tecnica che lo rende “esperto della propria quotidianità”, per citare i Rimini Protokoll.
“Ma se la comunità di cittadini è il bacino a cui la performance attinge per costruire la sua (non) fiction – prosegue Gonella – quella stessa comunità non può che costituire anche il punto di arrivo e il referente principale”.
E infatti i testimoni di “Souvenir di Milano” sono tornati a rivedersi sullo schermo e sono stati presenti tra il pubblico, talora dichiarandosi, talora in anonimato.
“Su l’Umano Sentire” ha il pregio di intercettare dunque nuove estetiche e forme che nascono dal connubio tra installazione, video e teatro (un elemento, quest’ultimo, non presente in “Souvenir di Milano”, se non in alcuni momenti in cui la mano registica si è resa visibile, ma importante in “Maneggiami con cura” con la presenza attoriale di Manshaft in scena). Intercetta inoltre istanze di testimonianza sempre più urgenti, laddove testimonianza equivale anche a sopravvivere a sé stessi nel dirsi e narrarsi agli altri.
Non è un caso che il quotidiano, il privato dell’attore-interprete-drammaturgo, sia elemento ricorrente anche in molto del cosiddetto “teatro contemporaneo”, fra nuovi realismi e rinuncia della mediazione interpretativa.
Ma in “Su l’Umano Sentire” il processo è diverso, antropologico più che mimetico, se è vero che indaga, a dirla con le storiche parole di Van Gennep ne “I riti di passaggio”, “la dimensione sociale della coscienza”, definita “primaria sia cronologicamente che collettivamente” a fronte della sua dimensione individuale “derivata e secondaria”.
“Su l’Umano Sentire” non vuole dunque definirsi “teatro”, benché “teatrali” siano le modalità di fruizione. E’ piuttosto un ibrido, una performance non sempre riproducibile e non sempre esportabile, che vive nella sua itineranza all’interno delle realtà e comunità che incontra, costruendo progressivamente archivi di volti, scenografie, teche o curiose wunderkammer.
L’articolo rende bene il panorama e l’aspettativa del pubblico verso la ricerca da un lato sociologica e dall’altro tecnologica che molti artisti si sforzano di mettere in atto, consci dell’ineluttabile cambiamento della “percezione della notizia” in corso nella società. Purtroppo non ho visto lo spettacolo e non posso commentarlo, ma l’esigenza del racconto – in modi diversi – è ben presente nell’articolo. Mi sono riavvicinato al teatro operativo da poco, dopo una lunga militanza nell’ambito della ricerca e produzione di nuovi linguaggi via personal device. Ecco, io penso che occorra avere il coraggio di capire i nuovi, rapidi modelli di comunicazione per accogliere un pubblico vergine… mi fermo qui.