Di una specie cattiva. La macerazione dell’anima di Teatro Rebis

Di una specie cattiva
Di una specie cattiva
Di una specie cattiva

Una donna sommersa dal biancore di un tempo si trasforma in larva, emerge come scheletro di se stessa.
Fin dall’inizio l’utilizzo della luce e delle voci off fa da padrone in questo spettacolo del Teatro Rebis, una ensemble artistico di Macerata che, dal 2003, ha intrapreso un percorso di ricerca espressiva che lo ha portato a sviluppare una forma di auto-pedagogia assistita. La ricerca espressiva di questo gruppo teatrale abbraccia le varie forme della comunicazione scenica come le luci, appunto, creatrici di ombre e immagini che da sole sembrano divorare l’attenzione dello spettatore, addirittura indipendentemente dall’attore in scena.

Il corpo di un’attrice-performer, Silvia Sassetti, pone al centro del lavoro coreografico il rapporto del suo corpo con l’impianto illuministico e scenografico, come se fosse semplicemente parte di esso: la voce intrappolata nelle registrazioni off; le musiche prevalentemente derivanti da un abile lavoro di montaggio di rumori e suoni.

Il tutto si risolve in questo spettacolo, “Di una specie cattiva”, presentato nell’ambito della quinta edizione di Teatri di Vetro, donando in 40 minuti non un racconto, ma una serie di evoluzioni emotive e sensoriali, attraverso le quali si percepisce un percorso umano di solitudine e follia.
Uno spettacolo ricco di contenuti e riferimenti, da quello iconografico legato al pittore Klimt delle “Tre età” a quello dichiarato del testo, un poema lirico ispirato all’universo poetico di Sylvia Plath.

Stretta è poi la relazione con le condizioni di disagio umano, con cui l’ensable ha molta confidenza diretta per la realizzazione, negli anni, di progetti con comunità per disabili fisici e psichici, per tossicodipendenti e minori immigrati, con case di riposo e case famiglia, esiliati politici e associazioni di immigrati.
Infine uno spettacolo caratterizzato soprattutto dal lavoro sul corpo scenico dell’attrice, che evidenzia a sua volta lo studio attento della danza butoh e del mimo di Yves Lebreton.

E’ l’esistenza di una donna in relazione ad un universo che solo in parte la comprende, in bilico tra le due facce della vita e della morte, equilibrista sul filo della coscienza e dell’annientamento. L’essere bordeline lentamente oltrepassa il valico della “normalità” verso il buio di una mente divorata dall’incomprensione di un’umanità alienata dall’ingranaggio produttivo.
La presenza della follia viene anticipata fin dalle prime parole: “…l’interesse della luna è più personale, passa e ripassa, silenziosa, come un’infermiera”.

Due semplici oggetti di scena ci introducono nel momento maggiormente narrativo dello spettacolo: un paio di scarpe con il tacco alto e una sedia. Indossando le scarpe e sedendosi sullo schienale della sedia la donna si trasforma in ciò che era: si assiste al lavoro meccanico e automatico di una segretaria. I movimenti dell’attrice sono precisi e veloci, il suono e le luci, soprattutto per le ombre che ne derivano, compiono la magia.

Vediamo davanti a i nostri occhi la frustrazione di un lavoro odiato, di un mestiere gabbia, della catena di montaggio frustrante e diabolicamente deformante. Il lavoro diventa scintilla che accende il fuoco di una vita che tende sempre più, in un crescendo ritmico e visivo, all’autocombustione, all’autodistruzione non fisica ma mentale.
La natura ne è spettatrice inerme, il buio della notte segue la solitudine della donna con l’occhio della luna. Il flash back viene rafforzato narrativamente dall’intervento – forse eccessivamente didascalico e in parte scenicamente ingombrante – della videoproiezione. Tanto da farlo sembrare la risposta ad un dictat artistico: non esiste ricerca se non si lavora con le immagini digitali. Ecco quindi un’inserzione quasi forzata, seppure contenente immagini molto belle e addirittura funzionali al racconto, ma pur sempre in estrema cesura con l’impostazione visiva precedente e successiva dello spettacolo.

E se per pochi secondi si potrebbe addirittura pensare di assistere ad un corto cinematografico, un elemento in particolare ci ricorda di stare a teatro: l’ombra dell’attrice su un riquadro scenografico di legno, e la penetrazione dell’immagine di un bambino nel suo stesso riquadro. Questo ci tuffa nel piacere dell’interazione della vita con l’immagine filmica, aprendo nella nostra immaginazione raccordi e simboli che arricchiscono la comprensione del significato drammaturgico.

La trasformazione intima ed esistenziale della donna avanza, il fantasma del corpo lotta contro la rabbia e la vergogna, trema annientandosi nel residuo di ciò che era. “C’è questa cessazione di ogni cosa”, la voce della sassetti finalmente diventa palpabile e presente al microfono, una sola luce la colpisce quasi di sbieco, la scena scompare, rimangono solo il corpo, la voce e l’emozione di un’attrice.

Come è scritto sul foglio di sala “questa presenza abbandonata dal racconto, in attesa di fuggire, decostruendo la rappresentazione, abitando una zerità, si fa immagine, icona, icona nel senso figurale del termine, vale a dire che è il personaggio che assomiglia sempre più all’attrice, e non il contrario”.
Il testo acquista valore e bellezza: “Mi vedo come un’ombra, né uomo né donna, sento una mancanza”. Ogni parola pronunciata dall’attrice si deforma e viene restituita come montaggio sonoro (un lavoro di deformazione acustica in diretta, grazie alla maestria dell’ingegnere del suono Stefano Sasso). La parola e il suono, anche se strettamente legati, sembrano lottare tra di loro, proprio come avviene nella mente di una persona in uno stato psichico di panico, di ansia, di terrore. Le parole accavallate, deformate, spezzate, non permettono la comprensione della fonte, ma rendono con estrema verità e anticonvenzionalità l’inquietudine mentale e la confusione interiore di un’esistenza che si sta frantumando.
Un’implosione e una rottura.

Il resto è il crescendo ritmico, sonoro, musicale  e visivo di questa rottura. Due ombre sul fondo. Urla. Flash. Il tutto si blocca nel passaggio lento del tempo, che ingoia e immobilizza uno stato tra la vita e la morte, sotto l’occhio silenzioso della luna, “che passa e ripassa come un’infermiera”.

Di una specie cattiva
con: Silvia Sassetti
regia: Andrea Fazzini
pre-testo: Eleonora Sarti
scenografia: Nicola Bruschi
musiche: Paolo Marzocchi, Gianluca Gentili
disegno luci: Marcello D’Agostino
elaborazione sonora: Stefano Sasso
fonica: Andrea Lambertucci
collaborazione coreografica: Yumiko Yoshioka
costumi: Massimo Eleonori
voce maschile: Giulio Carinelli
voce femminile: Silvia Sassetti
montaggio video: Marco di Cosmo
tecnico luci: Stefano Giaroni
ombre: Meri Bracalente, Lorenzo Pennacchietti
organizzazione: Silvia Castellani
durata: 40’
applausi del pubblico: 1’ 40’’

Visto a Roma, Teatro Palladium, il 25 maggio 2011
Teatri di Vetro 5

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