Daniele Filosi: “Formule diverse per ripartire, come il nostro Spoon River”

Daniele Filosi
Daniele Filosi

Dal 15 giugno potranno riaprire anche i teatri e i cinema, con nuove regole da osservare: mascherine obbligatorie, distanziamento tra gli artisti, misurazione della febbre a maestranze e pubblico, pulizia e sanificazione tra uno spettacolo e l’altro, accessibilità a sistemi di disinfezione delle mani, utilizzo della segnaletica per far rispettare la distanza fisica all’entrata, in biglietteria e in sala, una accurata comunicazione agli utenti delle misure di sicurezza e prevenzione.
Insomma, i problemi mica sono finiti, anzi.
Al di là delle misure di prevenzione e sicurezza che porteranno con sé grossi costi, rischi, incertezze e notevoli problemi di riorganizzazione, ma su cui d’altronde si stanno misurando tutte le attività in ripartenza, il grande punto interrogativo per lo spettacolo dal vivo rimane il pubblico: come reagirà lo spettatore alla riapertura? Avrà voglia, se la sentirà di ritornare in un ambiente chiuso per partecipare a uno spettacolo? Riuscirà a mettere da parte timori e paure?

Un gruppo di operatori teatrali italiani ha iniziato in questi giorni a diffondere in rete un primo questionario chiamato “Caro spettatore come stai?” proprio per comprendere quale possa essere il sentimento generale del pubblico e immaginare quale potrebbe essere la risposta dello spettatore a dei progetti culturali futuri.

Poi c’è anche chi si è già messo all’opera, come Daniele Filosi, che ha appena lanciato una campagna di crowdfunding per privati e fundrasing per aziende per la nuova produzione di TrentoSpettacoli/Spazio Off  “Viaggio a Spoon River per un attore e uno spettatore”. Un progetto ambizioso, che non solo raccoglie la sfida del distanziamento fisico – che per piccoli spazi teatrali con una cinquantina di posti come lo Spazio Off di Trento potrebbe essere una sfida persa in partenza -, ma prova anche a rilanciare il rapporto di fiducia con lo spettatore attraverso un evento “protetto”, in cui sicurezza e prevenzione non pregiudicano in nessun modo l’unicità dell’esperienza che lo spettatore è chiamato a vivere, e che anzi si spera ne uscirà potenziata.

Il progetto muove le fila dai 244 epitaffi poetici – per 212 personaggi – che Edgar Lee Masters ha raccolto nell'”Antologia di Spoon River”. Gli epitaffi di Masters altro non sono che storie di vita in verso libero, che TrentoSpettacoli cercherà di rendere ancor più singolari facendo ritorno alla relazione originaria dello spettacolo dal vivo, quella uno a uno tra attore e spettatore. D’altra parte una delle frasi celebri dello stesso Masters diceva: “Questo è il dolore della vita: che per essere felici bisogna essere in due”.

Abbiamo raggiunto telefonicamente Daniele Filosi per capire anche come un progetto di questo tipo possa essere economicamente sostenibile dal punto di vista produttivo e distributivo.

Daniele, prima di parlare del nuovo progetto puoi raccontarci cosa ha significato per voi questo periodo di lockdown, e come vi siete “mossi” in questi quasi tre mesi di inattività?
Come per altre realtà, anche per noi ha significato prima di tutto l’annullamento di repliche e date. Per l’inizio dell’estate avremmo dovuto intraprendere una nuova produzione sul Decamerone di Boccaccio immaginata ancora un anno fa, in tempi non sospetti, e per la quale avevamo già lanciato una call per trovare gli autori da inserire nel team che lavorerà con il regista Stefano Cordella (che KLP ha intervistato proprio qualche giorno fa).
La produzione si farà ma non sappiamo ancora quando, e dovremmo capire anche come rimodularla in base alla nuova situazione. Questi mesi sono serviti anche per fare un’attività di politica culturale e sindacale, e confrontarsi con altre realtà locali e nazionali per studiare sia delle misure per l’emergenza che per il rilancio.

Mi stai dicendo che si sta creando un’unità di intenti? Perché da fuori sembra che il comparto Teatro proceda in ordine sparso, senza un vero e proprio coordinamento.
C’è una polarità. I lavoratori fanno fatica a fare sintesi e ad avere una catena di rappresentanza forte e strutturata. Si è assistito a una proliferazione di comitati, tavole, sigle autocostituite quando, in questo momento, è importante avere una rappresentanza unica e limitata, che abbia l’autorevolezza per dialogare con il Governo e il Ministero anzitutto. Per i lavoratori è difficile perché la rappresentanza sindacale è ridotta, sono pochissimi gli attori iscritti al sindacato, soprattutto i liberi professionisti, e questo è un errore perché spesso non sono a conoscenza delle regole e delle norme date. Invece c’è un fortissimo coordinamento per quanto riguarda le imprese dello spettacolo attraverso l’Agis, e poi anche A.N.C.R.I.T e C.R.E.S.C.O. Agis raduna tutto il comparto dello spettacolo: cinema, teatro, danza e musica, e ha una capacità di interlocuzione unitaria con il Ministero.

Nel concreto cosa significa?
Che le imprese (compagnie, festival, teatri pubblici e privati ecc…) hanno davanti una prospettiva, soprattutto in termini di distribuzione, molto complicata, e se già lo era prima, ora lo sarà ancora di più: le stagioni dovranno essere completamente rimodulate, si dovrà gestire in modo diverso l’afflusso del pubblico e ci sarà un ridimensionamento della domanda. Nei prossimi mesi, quando riapriranno i teatri, al di là delle regole di distanziamento, quale sarà l’approccio dello spettatore allo spettacolo dal vivo, al cinema, ecc…? Avrà voglia di ritornare in un ambiente chiuso a vedere uno spettacolo con tutte le incognite e le paure che ci possono essere? Questa è una grande domanda. Quindi stiamo partendo dal pubblico e stiamo cercando di costruire un questionario attraverso Agis Triveneto che, pur non essendo perfetto dal punto di vista scientifico, sarà uno strumento utile per capire il sentimento, l’aspettativa, il grado di fiducia, la voglia, il timore del pubblico rispetto alle nostre proposte artistiche, per provare a prevedere e immaginare anche i consumi culturali che ci saranno o meno. Gli attori e registi con cui ho parlato sono molto spaventati dal cambiamento, come a dire: noi abbiamo sempre fatto il teatro in una certa maniera e continueremo a farlo così. C’è molta pigrizia, invece di lamentarci io dico di provare a immaginare, inventare e sperimentare delle formule diverse che raccolgano anche le disposizioni che avremo da qui ai prossimi mesi.

E’ da queste riflessioni che è nato il progetto “Viaggio a Spoon River per un attore e uno spettatore”?
In questo periodo mi sono interrogato molto, sono rimasto in contatto con molti colleghi con i quali ho condiviso tante discussioni e riflessioni. Ho pensato che forse anche gli organizzatori come me devono prendersi la responsabilità di creare delle cornici diverse e originali all’interno delle quali gli artisti possono costruire un loro progetto performativo.
La prima cosa che mi è venuta in mente è il ritorno alla relazione uno a uno, la relazione ancestrale, originaria, tra attore e spettatore. Prima di tutto perché in questi mesi abbiamo visto pochissima gente e il rapporto uno a uno si è un po’ perso, ne abbiamo sentito tutti la mancanza e quindi ripartire da una singolarità poteva essere necessario. Poi mi è venuto in mente il cimitero di Spoon River che è fatto di oltre duecento lapidi, quindi più di duecento individualità che, grazie al poeta Edgar Lee Masters, hanno qualcosa da raccontare sulla propria vita, che è unica e irripetibile così come lo è per ogni spettatore.
Ho sentito quindi la necessità di ripartire dalla filiera di base di uno spettacolo, le tre figure fondamentali: un drammaturgo, un regista e un attore. L’obiettivo è quello di dare una risposta lavorativa vera e propria a questo momento di chiusura attraverso la realizzazione di 15 monologhi per uno spettatore alla volta, che verranno scritti, diretti e interpretati da autori, registi e attori del territorio trentino, e rappresentati per uno spettatore alla volta a partire dal prossimo settembre. Per il momento ho individuato i tre autori, che saranno Angela Demattè, Carolina de la Calle Casanova e Maura Pettorruso. Poi, se la cosa funziona, nulla ci vieta di portare il progetto anche fuori regione, creando dei nuovi monologhi; di materiale ce n’è per una vita!

Le regole sul distanziamento stanno mettendo in crisi un po’ tutte le attività alla riapertura. In molti dicono che non riapriranno, che non ce la faranno a coprire i costi. Conti alla mano, com’è sostenibile un progetto che prevede un numero massimo di 15 spettatori per giornata di spettacolo?
L’intero progetto costa all’incirca 30mila euro, repliche comprese. Oltre ad investire delle nostre risorse stiamo cercando una sponda sia nel Centro Santa Chiara di Trento e sia da privati. Il biglietto per lo spettatore unico costerà almeno 20 euro, e quello che vogliamo è trovare dei mecenati che raddoppino metaforicamente i 20 euro versati dallo spettatore.
Ci piacerebbe ci fossero delle aziende private – che se lo possono permettere – disposte ad adottare questo progetto o magari adottare anche solo uno dei drammaturghi, o uno dei registi, dato che ci sono delle prove da fare e quindi c’è un costo di produzione importante. Per questo motivo, per la prima volta, oltre a lanciare una campagna di crowdfunding per privati, abbiamo lanciato anche una campagna di fundraising con ArtBonus, che è uno strumento dello Stato molto interessante per le aziende, perché possono dare un sostegno al nostro settore a fronte di un credito fiscale importante. Tu dai 100 euro al progetto e ti tornano indietro in termini di credito fiscale 65 euro, che non è poco.

E se invece ragionassimo dal punto di vista di chi dovrà programmare lo spettacolo?
Da questo punto di vista ci vuole una scelta radicale. Lo sbigliettamento non riesce quasi mai a coprire il cachet di uno spettacolo, questo si sa. Ogni monologo avrà una durata massima di trenta minuti, e sarà replicabile per un massimo di cinque volte durante l’arco della giornata, per un totale di quindici performance. Con l’incasso dei biglietti ci facciamo ben poco! La vera sfida è quella di far passare il concetto che si offrirà allo spettatore qualcosa che sarà solo per lui, un’esperienza unica e speciale. E’ pur sempre una forma di investimento, anziché fare uno spettacolo per la metà degli spettatori che potresti ospitare e che non ti risolve il problema, perso per perso decidi invece di valorizzare lo spettacolo e lo spettatore, creando un impatto diverso e un’esperienza emotiva fortissima. Sarà organizzato come un appuntamento al buio. Lo spettatore sceglierà il giorno in cui partecipare, e poi si troverà davanti a sorpresa uno dei personaggi, che per una mezz’ora sarà solo per lui. Mi piacerebbe, se riusciamo, lasciare allo spettatore alla fine dell’incontro uno stampato con l’epitaffio da cui ha preso spunto il monologo, come una sorta di passaggio di consegne, dalla morte di Spoon River alla vita.

Come pensi che questa situazione si rifletterà nel prossimo futuro? Come dovrà cambiare il teatro?
Non c’è peggior cosa di sprecare una crisi, si dice. Quindi il momento del disastro è paradossalmente il momento migliore per costruire da zero, reiventare e ripensare l’attività e il sistema teatrale per cerchi concentrici, partendo dal locale per arrivare al nazionale. Per questo il nostro progetto è prima di tutto un’occasione di lavoro. E poi è un buon momento per rivedere la struttura del finanziamento ministeriale al mondo teatro. Si è sempre pensato di misurare il finanziamento sulla base di indicatori sostanzialmente quantitativi. Quando chiedi a una compagnia di fare 90 repliche all’anno vuol dire che sei completamente fuori dalla realtà. Questo vuol dire che c’è un problema a valle di domanda di spettacolo, cioè c’è troppa produzione e poco spazio per fare girare le produzioni. Quindi salvaguardiamo il lavoro, lasciamo intatti i criteri minimi quantitativi per il lavoro, ossia le giornate di lavoro per attori, tecnici ecc… però diminuiamo le pretese in termini di circuitazione, perché se era una pretesa insostenibile fino adesso, figuriamoci nel 2020 e nel 2021. E poi penso che il nostro settore si debba dare una svegliata dal punto di vista dell’innovazione tecnologica e digitale, che non vuol dire limitarsi a pubblicare i video degli spettacoli su internet, ma inventarsi nuovi modi, anche confrontandosi con altre professionalità come quelle della visual art, della grafica, del video mapping, del mondo dei social… per comunicare, presentare, raccontare dei contenuti che possono essere fantastici ma che oggi non riusciamo a far arrivare oltre ai soliti affezionati.
Da questo punto di vista siamo ancora molto indietro rispetto ad altri Paesi europei ma anche rispetto ad altri settori, penso al settore Musei per esempio; dal mio punto di vista è oggi più che mai necessario svecchiarsi per intercettare un pubblico diverso.
Sto iniziando a lavorare anche a un altro bel progetto che prende spunto dal mondo della ristorazione, che in questo momento ci sta insegnando tantissimo dal punto di vista del reinventarsi. Noi purtroppo ci si ferma molto all’etichetta, alla patente acquisita perché uscire dal seminato e reinventarsi fa paura, e richiede tanto coraggio. Certo che lo spettacolo dal vivo rimane il cuore del teatro, ma il teatro – lungo la sua storia – ha cambiato forma e pelle centinaia di volte, quindi possiamo provare a percorrere anche altre strade. Altrimenti continueremo a dire che siamo importanti, che “il teatro è questo e tutto il resto non è teatro”, e la gente continuerà a non venire a vederci.

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