A undici anni dall’occupazione del Teatro Valle, ripercorriamo i tratti salienti di quest’esperienza di democrazia dal basso e della mancata realizzazione di una governance partecipata (cittadini – istituzioni)
Negli ultimi anni sono stati sgomberati spazi decisamente importanti nella scena dell’autoproduzione e delle realtà indipendenti romane. A novembre del 2020 mi sono trovata io stessa in piazza a manifestare con chi, queste esperienze, le ha costruite, vissute. Ho anche cercato di seguire il germoglio di speranza rappresentato, in questo senso, dalla Laboratoria Ecologista Autogestita “Berta Caceres’, il cui soffio vitale è spirato dopo solo diciotto giorni dall’occupazione.
In queste occasioni mi sono domandata: oltre ad un inevitabile valore affettivo, oltre alla sperimentazione e alla qualità dell’offerta culturale promossa da questi spazi, c’è altro? L’universo delle pratiche teatrali si riconosce anche in questi luoghi? E cosa li accomuna tra loro?
Nel tentativo di dare una risposta a questi quesiti riporterò due vicende di riappropriazione differenti, ma assimilabili tra loro per il valore che, per la cittadinanza, possono assumere queste realtà: un luogo dove costruire una socialità e creare un modo diverso di fare cultura.
L’occupazione di questi spazi (sottratti per motivi speculativi, a causa di privatizzazione, per cambi di destinazione d’uso) è da intendersi come strumento per tutelare un bene comune.
Nella drammatica epoca in cui viviamo, dove il mondo del teatro e, più in generale, delle arti performative è stato drammaticamente schiacciato e bloccato da una pandemia globale, che ha portato ben il 21% dei lavoratori dello spettacolo a cambiare mestiere, per non parlare della quantità di spazi e piccole realtà che non sono riuscite a riprendere la propria attività, può forse risultare utile guardare un modo diverso di fare produzione culturale e artistica.
Parlando genericamente di centri sociali (CSOA) si fa riferimento a veri e propri spazi sociali autogestiti e/o occupati oppure, talvolta, concessi dalle amministrazioni locali, attraverso un ampio spettro di modalità e convenzioni.
La loro storia nel panorama italiano attraversa fasi distinte, riconoscibili attraverso quattro differenti generazioni: la prima, interpretabile come una sorta di riforma di quella che fu l’esperienza storica dei circoli di proletariato giovanile; la seconda, che vede l’esplosione del fenomeno (ed inizia a partire dagli anni Novanta); la terza, quella degli anni Duemila, ed infine la quarta, durante la quale nascono gli Spazi Liberati che divengono beni comuni. Quest’ultima generazione pone, come fulcro della propria azione, la necessità di tematizzare la crescente precarizzazione del lavoro e la centralità che l’attività culturale viene ad assumere in una società fondata sull’economia della conoscenza.
La quarta generazione di CSOA nasce dunque come sostanziale reazione ad un inasprimento e radicalizzazione del neoliberismo, che vede protagonisti del proprio sviluppo tagli dei salari e instabilità lavorativa, utilizzati come provvedimenti di una precisa visione politica, ma presentati come elementi tecnici per arginare la crisi. Questa politica dà luogo a quella che viene identificata come forma di accumulazione di capitale, inedita rispetto a quanto affrontato prima d’ora poiché, sinteticamente, produce un indebitamento degli Stati, che privatizzano di conseguenza i servizi essenziali e il proprio patrimonio artistico e naturale.
Il modo di affrontare questo stallo politico potrebbe essere duplice: da un lato una risposta possibile è quella neo-autoritaria, con una semplificazione verticale del comando. Dall’altra si potrebbe ricercare una soluzione di tipo democratico-partecipativa, consistente nell’accogliere le richieste attive provenienti dalla comunità. Al fine di trasformare queste istanze in prassi, la democrazia necessita di beni pubblici, considerabili come beni comuni.
Il concetto di bene comune entra al centro delle discussioni della quarta generazione di CSOA, espresse anche all’interno del manifesto per il Movimento dei beni comuni (di cui il Teatro Valle e il Nuovo Cinema Palazzo sono i casi più noti), vale a dire ricreare un universo delle cose in comune, ri-costituzionalizzando il concetto di proprietà, in un’ottica di solidarietà sociale.
L’ingresso principale del Teatro Valle di Roma si trova nella via da cui prende il nome. Progettato dall’architetto Tommaso Morelli nel 1726 su commissione dei marchesi Capranica del Grillo, viene inaugurato l’anno successivo con la commedia “Matilde” di Giovanni Antonio Bianchi. Nel 1969 l’Ente Teatrale Italiano acquista il teatro ma, il 31 maggio 2010, l’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti sopprime l’ente con un decreto-legge della manovra anti-crisi. I compiti e le attribuzioni dell’ETI vengono trasferite al ministero per i Beni e le Attività Culturali, presieduto all’epoca da Sandro Bondi.
Il 14 giugno 2011 un gruppo di attori e lavoratori dello spettacolo si dà appuntamento davanti al Teatro Argentina dirigendosi poi al Valle.
Una volta davanti al teatro, vengono forzati i lucchetti e viene occupato lo spazio, con l’idea di realizzare un gesto simbolico, che si tramuterà poi in un’occupazione ad oltranza.
L’appropriazione di questo spazio – rinominato Teatro Valle Occupato – rappresenta un’azione artistica che intercetta i vuoti istituzionali dell’arte, provando a dar loro un nuovo significato.
Le attività per la costruzione di un nuovo modello teatrale iniziano da subito, allo scopo di far emergere le condizioni lavorative in ambito culturale e la drammaticità della soppressione di importanti enti.
L’occupazione nasce quindi a favore della tutela del teatro, considerato come bene comune, trasformandolo nel fulcro di una serie di ricerche, non solo in campo artistico ma anche giuridico, grazie alla partecipazione di personalità come Ugo Mattei, Stefano Rodotà e Maria Rosaria Marella.
Dalla collaborazione con i giuristi si paventa la strada per la creazione di una Fondazione, dotata di uno statuto realizzato attraverso tavoli di lavoro, seminari e assemblee.
All’interno del testo vengono elencati e definiti diritti e doveri dei soci fondatori, divisi in comunardi e soci sostenitori. Con il tempo più di cinquemila persone sottoscrivono una quota per divenire soci della Fondazione Teatro Valle Bene Comune.
La Fondazione si compone di diversi organi interni: l’Assemblea, il Consiglio, la Direzione artistica, il comitato dei garanti, il tesoriere e il collegio dei revisori.
Di carattere innovativo è la figura del Direttore artistico, il quale o i quali (possono essere elette più persone) ha/hanno una carica che dura da uno ad un massimo di tre anni e viene eletto dal Consiglio in base al progetto che si ha intenzione di portare a realizzazione, attraverso una pubblica “chiamata a proporre”.
Per quanto riguarda la programmazione culturale, l’esigenza dei primi mesi risulta quella di tenere lo spazio il più aperto e fruibile possibile, con eventi e attività costanti.
Mediamente le giornate vengono divise tra seminari e laboratori al mattino e spettacoli la sera. Ciò che emerge è tendenzialmente una proposta molto varia, sia per tematiche che per generi (concerti, prosa, danza…), allo scopo di rappresentare al meglio il concetto di palco aperto, che possa richiamare diverse tipologie di pubblico.
Nel corso dei primi mesi hanno luogo attività di vario genere: dalle serate “Flusso”, in cui si vede un susseguirsi di artisti sul palco con differenti esibizioni, alle visite pomeridiane accompagnate dal guardiano del teatro, o ancora le serate in cui si propongono letture di libri e concerti di musica classica.
Successivamente si procede ad una scelta più oculata e si effettua una pianificazione di eventi e attività, grazie al dibattito in Assemblea sulle esibizioni che i diversi artisti propongono.
Oltre a portare a Roma diverse compagnie che mai prima di allora avevano calcato le scene della città (come ad esempio i tedeschi Familie Floz, che lavorano sul corpo creando un mix tra danza contemporanea e teatro), oltre ai concerti e ai djset con grandi artisti, il Valle Occupato organizza diverse iniziative rivolte ai più giovani attraverso il “Valle dei Ragazzi”, ma anche proposte per le scuole pubbliche, come il “TanzZeit”, laboratorio sulla danza contemporanea, o l’opera lirica per i bambini, attività che oltre ad avvicinare i più giovani al mondo del teatro riescono a coinvolgere alcune scuole provenienti da tutta la città, dal centro alla periferia.
La sperimentazione artistica avanza con l’impegno politico e sociale, elemento riscontrabile ad esempio in attività come il “TanzZeit”, nel corso del quale si effettuano incontri con i ragazzi di Centocelle; oppure gli eventi realizzati con associazioni umanitarie, allo scopo di portare sul palco gli esclusi. Il teatro diventa quindi luogo di incontro in cui la periferia si congiunge con il centro.
A partire dalla stagione 2013/2014 si sviluppa anche la programmazione annuale denominata “Altresistenze”, dove il cinema si unisce agli spettacoli teatrali allo scopo di amalgamare pubblici diversi. All’interno di questo progetto nascono produzioni come “Rabbia”, un progetto che spinge verso una nuova scrittura, sperimentando forme differenti, da quella televisiva alla video-arte.
Nell’estate del 2014 prende piede un altro progetto innovativo: tre giornate di esplorazione cittadina con uno scambio di pratiche artistiche, politiche e linguistiche. Il corso, chiamato “Crociera”, viene tenuto da Strasse, gruppo milanese che lavora sul linguaggio del corpo in relazione al contesto urbano; c’è dunque la necessità di unire il teatro alla città, facendosi influenzare dal significato e dalla storia dei luoghi.
Per richiamare un’ampia affluenza i costi di partecipazione ai laboratori sono sempre popolari, i più bassi del mercato, così come i biglietti d’ingresso agli spettacoli, spesso a sottoscrizione libera. La cultura intesa come bene comune è anche questo: creare un effettivo allargamento dell’accessibilità per tutti i cittadini, sia dal punto di vista dell’approfondimento culturale, che da una prospettiva economica.
La densa programmazione del Teatro Valle Occupato, considerata di alta qualità da molti enti internazionali ed italiani, guadagnato nel frattempo numerosi premi, tra i quali nel 2011 il premio Salvo Randone – Oscar del teatro italiano; il premio UBU e il Princess Margaret Award, conferito dall’European Cultural Foundation di Bruxelles nel 2014.
Questo percorso fecondo di innovazione ha però un brusco arresto.
Il 28 luglio del 2014, infatti, dopo una serie di mancati incontri con il Sindaco di Roma, Ignazio Marino, il gruppo degli occupanti viene finalmente convocato per un tavolo di discussione, che si rivela però essere soltanto un ultimatum: gli attivisti devono lasciare lo stabile entro il 31 luglio per consentire i lavori di ristrutturazione, richiesta che risulta essere chiaramente un pretesto per liquidare in fretta la situazione.
Dopo alcune trattative con il Comune, gli occupanti, nella speranza che si possa avviare una collaborazione con il Teatro di Roma, nuovo gestore dello spazio, lasciano volontariamente lo stato di occupazione l’11 agosto 2014.
Sebbene il Valle sia il più celebre esempio di spazio occupato che si trasforma in bene comune e collettivo, non è il solo. Un altro esempio, sempre in terra capitolina, è – come anticipato all’inizio – il Nuovo Cinema Palazzo, di cui si parlerà nel prossimo articolo.