Stefania Tansini: sapere dove si è, ma non sapere dove si sta andando. Intervista

Stefania Tansini in Democracy in America (photo: Guido Mencari)|La grazia del terribile di Stefania Tansini Kilowatt Festival
Stefania Tansini in Democracy in America (photo: Guido Mencari)|La grazia del terribile di Stefania Tansini Kilowatt Festival

Dopo l’intervista a Martina Gambardella e Sara Sguotti proseguiamo i nostri approfondimenti sulle giovani danzatrici italiane con Stefania Tansini, classe 1991.
Diplomatasi come danzatrice presso la Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi approfondisce la sua tecnica attraverso gli incontri con Enzo Cosimi, Dominique Dupuy, Cesc Gelabert, Jonah Bokaer, Maria Consagra.
Nel 2014 prende parte allo spettacolo di Dario Fo e Franca Rame “Storia di Q” e inizia a lavorare come danzatrice in tutte le produzioni di Simona Bertozzi. Nel 2016 inizia a lavorare con Luca Veggetti e Ariella Vidach.
Si confronta con alcune esperienze di video-danza (Interferenze, Cortometraggio, L’isola sbagliata, Film, Piano Social, video musicale del musicista Francesco Orio) e nel 2017 viene chiamata da Romeo Castellucci per prendere parte alla sua nuova produzione “Democracy in America”; nel 2018 al “Flauto Magico”, opera lirica con la regia di Castellucci e le coreografie di Cindy Van Acker. Nel 2020 inizia a lavorare nella produzione dei Motus “Tutto Brucia”.
Ha lavorato anche con Emanuela Tagliavia in “Hopper Variations” (2014) e “Combustioni” (2015), e con Mette Sterre (curatore Robert Wilson) nella performance “Structurealist” (2015).
Attualmente sta lavorando a “My Body”, progetto modulare che si articola in un solo e in un trio.

Iniziamo anche con te con una domanda banale ma che può diventare significativa. Perché danzi?
Per me danzare è avere la possibilità di avvicinarmi a quella spinta dinamica e vitale dell’essere umano. Grazie alla danza ho la possibilità di usare uno strumento concreto, il corpo, per poter avvicinarmi a tutto quello che sentiamo ma non vediamo, a quel lato invisibile, essenziale, intimo e spirituale che ci appartiene. Quando danzo ho la possibilità di entrare in contatto profondo con me stessa e con il mondo. Questo mi fa sentire viva, mi fa sentire nel posto giusto.
C’è un piacere personale, ovviamente, un godimento nel danzare e nel muovermi che mi appartiene, ma l’obiettivo del mio danzare è poter condividere questo piacere e coinvolgere chi osserva. È cercare di creare una situazione che metta in dialogo quel ‘sentire’, quella parte nascosta ed emozionale di chi danza e di chi osserva. Un dialogo, un incontro di mondi interni, reso possibile grazie all’espressione di un corpo che si muove nello spazio.
Quando ho un pubblico che mi osserva, danzo per cercare di traslare in loro quella sensazione di vitalismo che mi incarna. Il mio compito è essere invisibile ma presente, ovvero rendermi una porta d’accesso reale e concreta verso quell’invisibile nulla che ci fa sentire vivi.

Cos’è per te il corpo?
Il corpo, qualsiasi corpo, è meraviglioso. È magnifico, la sua bellezza è profonda e inconcepibile. È un contenitore di energia ogni volta diverso e ogni volta da riscoprire.
Quello che mi affascina del lavoro con il corpo (del corpo, sul corpo, nel corpo) è il fatto che non c’è mai un punto di arrivo, non c’è mai un punto finale, una certezza, ma è sempre tutto nuovo, precario, ogni volta da ricostruire, da rivivere, da ripercorrere, da rimettere in discussione. È questo che rende sempre vitale e vero un gesto o un movimento. Ogni volta bisogna alimentare e far scorrere questa linfa nel corpo. Questo mistero senza fine è mozzafiato. È assurdo. Lavorare stando nel non sapere, è quello che mi affascina. Ovvero sapere dove si è, ma non sapere dove si sta andando. Questo è il motore che mi spinge a danzare.

Quali sono state e sono le maggiori difficoltà incontrate durante la tua ancora breve carriera?
La cosa più difficile per me è riuscire a vivere del mio lavoro. Sembra un discorso venale, ma invece è molto concreto. Il cuore del mio lavoro pulsa nella direzione della ricerca, dell’usare la tradizione per poi oltrepassarla, e gli investimenti economici in quest’ambito non sono molto consistenti. Credo che i contributi alla cultura e all’arte ci siano, ma siano mal distribuiti.
In più, la parte burocratica e amministrativa ha un peso notevole, sia economico che di tempo ed energia, che va a gravare non solo sul singolo artista, che cerca di poter vivere della propria professione, ma anche su compagnie, festival, spazi di residenza… su tutto quello che ruota attorno ad una produzione, su tutto quel mondo sotterraneo di teatro e di danza di ricerca che è vasto, prolifero e pieno di potenziale, ma che a volte fa fatica a trovare delle possibilità di vita.
I miei progetti sono un micro-esempio che risente di una macro-questione di gestione del sistema teatrale, ma mi ritengo comunque fortunata, perché i semi che ho piantato durante il mio percorso stanno piano piano dando i loro frutti.

Parlaci dei tuoi incontri con i vari maestri, di diversa provenienza, con cui hai lavorato. Cosa hai imparato da loro?
Sono molte le persone che hanno contribuito ad alimentare la mia passione.
Partirei da Romeo Castellucci, una persona che mi ha insegnato il coraggio di dire, senza scendere a compromessi. Mi ha fatto capire che non bisogna perdere la passione per quello che si sta facendo e di rimanere puri e fedeli a se stessi, al di là di tutto. Simona Bertozzi, che mi ha dato la possibilità di approfondire il lavoro sul corpo con una qualità e un’accuratezza rara. Mi ha aperto delle possibilità di lavoro sul corpo che non avevo ancora esplorato. Lavorare con lei mi ha lasciato delle domande alle quali sto cercando ancora di dare risposta. Cindy Van Acker, una coreografa con un’ossessione meravigliosa verso il movimento, mi ha attratta e incantata. Grazie a lei ho capito quanto nel dettaglio si nasconda il senso della globalità, quanto il rigore e la pulizia del movimento possano davvero diventare portatori di senso. Seppure per brevi periodi, i momenti trascorsi con Roberta Mosca, danzatrice e persona magnifica, sono stati catartici. Mi hanno permesso di capire che non c’è divisione tra arte e vita, che ogni volta che facciamo qualcosa, qualsiasi cosa, portiamo noi stessi, interamente. Mi ha fatto capire che il nostro coinvolgimento esistenziale è necessario per continuare un percorso di ricerca.
Inoltre ho da poco iniziato un nuovo percorso con i Motus: anche con loro sento che posso imparare molto e continuare ad ampliare la mia visione sul corpo e sul movimento.
Ma potrei citare moltissimi altri mastri che ho incontrato nel mio percorso (da tutti i maestri e le esperienze che la Paolo Grassi mi ha offerto, alle esperienze di teatro di strada con Corona-Events, al mio insegnante di teatro delle medie…), ma non vedo i maestri come figure per forza legate al mio ambito lavorativo. Anzi, penso che abbiamo molte occasioni di incontrare delle persone da cui imparare o cogliere qualcosa che prima non avevamo visto. Sta a come e dove volgiamo la nostra attenzione.

La grazia del terribile di Stefania Tansini Kilowatt Festival, San Sepolcro 2019 (photo: Luca del Pia)
La grazia del terribile di Stefania Tansini Kilowatt Festival, San Sepolcro 2019 (photo: Luca del Pia)

Dei tuoi giovani collegh* quali stimi di più e perché?
Stimo tutti quelli che prendono una posizione, che credono in una loro idea e cercano di realizzarla, al di là del riconoscimento e del risultato ottenuto. Stimo tutti quelli che fanno, che non si nascondono dietro alle difficoltà del sistema, ma che decidono di mettersi a nudo e di provarci. Che hanno il coraggio di buttarsi in pasto agli occhi del pubblico, mettendo in gioco loro stessi. Stimo quest’indole, questa modalità di affrontare il processo e il percorso creativo, al di là delle specifiche scelte artistiche.
Lavorare con persone che hanno questo tipo di temperamento mi permette di creare dei legami veri, sinceri e genuini, delle relazioni libere da sovrastrutture che mi uniscono alle persone in modo profondo, sia nella vita che sul palcoscenico.

Dal tuo curriculum pare ti piaccia mescolare la danza con gli altri linguaggi della scena. Quali aspetti ti interessano di più? In che modo hai favorito questi incontri?
Ragiono sempre in apertura e inclusione e, per me, fare più esperienze possibili in ambiti anche diversi è più arricchente rispetto ad avere un’unica visione.
L’amore per il corpo e il movimento è così saldo in me che porto nella mia ricerca qualsiasi cosa: da come cammina una persona per strada a come si muove un danzatore di William Forsythe. Quello che mi interessa è il lato umano che si nasconde nel corpo, la dimensione umana che si cela dietro al movimento.
Questo spunto, questa forza generativa che alimenta il mio percorso la posso trovare in diverse e svariate esperienze, situazioni o persone.
Le grandi produzioni internazionali, il lavoro in sala in solitudine, l’utilizzo della voce così come l’azione nel silenzio, l’incontro con attori, cantanti lirici, musicisti, artisti visivi… tutte occasioni che mi hanno permesso di cambiare punto di vista e prospettiva delle cose. E questo lo porto nella mia concezione di danza e di corpo, che può prendere tante strade e sfaccettature differenti quante esistenze ci sono sulla Terra. È interessante questa molteplicità.

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