Giugno. Amsterdam si sagoma di scacchi, teschi e grafiche multicolor; striscioni variopinti avvolgono palazzi ed automobili: è l’Holland Festival, il teatro invade la città e i suoi cittadini i teatri fino al 28 giugno.
Presenze importanti ritrovano il loro pubblico, a piccole compagnie si offre un momento di visibilità, e artisti internazionali calcano per la prima volta i palcoscenici olandesi. Steven Cohen è uno di questi: sudafricano, bianco, ebreo e omosessuale. Performer e poliforme artista, Cohen non è un essere umano ma un extraterrestre. Può apparire narciso, provocatorio, insopportabile ma ha molto da dire e adopera tutto se stesso per farlo.
Il lavoro che presenta in Olanda è l’unione di tre assoli nati tra il 2002 e il 2005, in cui performance e video si intrecciano per indagare il tema della deportazione e della diversità. La prima parte, dedicata all’Olocausto, è quella più completa e toccante. Su una scena nuda Cohen si presenta sottoforma di maschera dallo sguardo ipnotico. L’artista entra in ‘bustier’, su enormi e impraticabili zeppe leopardate, totalmente nudo ad eccezione di una stella di David sui genitali e sulla testa. Spogliandosi dei suoi ‘camouflage’, stagliato su video che ricordano la strage ebraica e accompagnato da discorsi pubblici del Fuhrer, si dona alla causa ebraica. Il suo corpo si fa svastica assumendo pose disumane, viene lacerato e sondato da falliche telecamere da cui si fa possedere, anche fisicamente. Una maestria e delicatezza tale da trasformare una colonscopia in arte: un rito sacrificale offerto al pubblico per aprire la mente e superare ogni barriera.
Protagonista della seconda parte è la domestica africana levatrice dell’artista, che propone un audace striptease durante i suoi doveri domestici, mostrando la propria carne di vecchia ottantaquattrenne. Si introduce così un altro importante argomento caro a Cohen: la nudità. Il nudo non come provocazione ma come mezzo espressivo. “My performance art may use states of phisical undressing but it is really about spiritual nakedness”, ci avverte. E in tal modo, senza troppi giri di parole, più concreto della realtà stessa, tocca il delicato tema dell’apartheid. Una impressionante dimostrazione della forza delle immagini. Il pubblico – generalmente molto discreto – reagisce stranito, un inaspettato applauso interrompe lo spettacolo.
A concludere la triade ecco comparire una nuova forma umana: l’uomo candelabro. Cohen, stretto in un ‘bustier’ candelabro, entra a passi faticosi nel silenzio e, tra un magico tintinnio di cristalli, il suo sguardo arriva a toccare gli spettatori nel profondo. C’è qualcosa di ancestrale in lui: si avvicina, ti osserva, e con profondi, strani respiri si allontana.
Sullo schermo appare quindi il frutto del progetto Chandelier: l’artista, così trasformato, catapultato nella dimensione africana delle baraccopoli abusive di Johannesburg. Le reazioni della popolazione a questa strana visione sono impressionanti: chi lo aggredisce verbalmente e fisicamente e chi, baciandogli la mano, vede in lui un nuovo Cristo. “I’m messing with a society that is more shocked by violence of my self-presentation as a monster/queer/unrepresentable or whatever, than by the actual violence they live with every day” riflette Cohen. E in questa dimensione umana di sfacelo e disagio l’uomo candelabro illumina ciò che abbiamo sotto gli occhi e rifiutiamo di vedere: la solitudine e l’isolamento di cui l’uomo stesso è artefice primo.
Dancing Inside Out (performance)
di e con Steven Cohen
musiche: Adhèmar Dupuis
Maid in South Africa (film)
con: Nomsa Dhlamini
Chandelier (performance e film)
di e con Steven Cohen
riprese video: Fioa Mc Pherson, Coco Van Oppens, Elu Keiser
durata: 1 h 15’
applausi del pubblico: 1’ 15’’
Visto a Amsterdam, Theater Bellevue, il 7 giugno 2009
Holland Festival