Lo spettacolo, in scena al Teatro Vascello di Roma, è tra le dieci proposte selezionate per la Nid Platform di Salerno a maggio
Quando si manifesta un prodigio, un evento soprannaturale che Dioniso, il dio della danza, manda in scena direttamente sul palcoscenico per celebrare la bellezza o per realizzare uno stato di grazia, nessuno ostacoli tutto ciò. Così è successo sabato 12 febbraio, durante lo svolgimento di “Suite Escape”, al Teatro Vascello di Roma, il seno di una danzatrice è emerso in un momento della coreografia. Un imprevisto o un dono, nei termini di destrutturazione della forma, di uno standard, di un codice.
Forse è stato il punto più alto di quel percorso, di quell’atto coreografico, di quel racconto-non racconto, durato un’ora circa. Una piccola variazione casuale dovrebbe essere sempre accettata e sviluppata quando si rivela, così come avviene nelle improvvisazioni. Mai nascosta o coperta, soprattutto quando il nudo in scena può rappresentare un’autentica fase di sviluppo.
“Suite Escape” è nato a Bari dall’incontro tra Riccardo Buscarini e Roberta Ferrara, interessata ad avere un lavoro sui classici nel repertorio della sua compagnia, Equilibrio Dinamico. Il coreografo piacentino ha individuato e definito l’obiettivo principale della sua creazione, fin dal suo concepimento, ovvero l’analisi di famosi pas de deux del balletto classico.
Debuttato a Civitanova Danza nel 2019, lo spettacolo è stato realizzato in coproduzione con Art Garage e con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese e AMAT, ed è tra le dieci proposte selezionate per la Nid Platform di Salerno che si terrà dal 13 al 15 maggio.
Nella cifra stilistica di Buscarini rivestono una centrale importanza i temi dell’equilibrio e del sostegno che, di volta in volta, viene dato o ricevuto tra i danzatori. Il movimento risulta essere un approccio, una sorta di trattativa, di scontro e, in misura minore, di incontro, tra l’io e il noi, tra i generi in tutte le sue possibili combinazioni, tra ciò che è presente e quel che non è più presente. Tutto questo viene declinato in modo drammatico, struggente, ricorda o rievoca qualcosa di molto lontano, come se fosse un frammento melò di Fassbinder. La protagonista di “Le lacrime amare di Petra Von Kant”, film del 1972, recitava: «Io credo che l’essere umano sia fatto per vivere con i suoi simili. L’unico grande guaio è che non ha mai imparato a farlo».
Già, peccato però che il melò non vive più nelle convenzioni sceniche e nei rituali comunicativi e narrativi del teatro. I quattro danzatori, due donne e due uomini, si somigliano tra loro, hanno caratteristiche morfologiche abbastanza simili, a distinguerli sono i colori dei costumi di scena. Quattro fisicità, quattro corpi riprodotti serialmente che a volte appaiono teneri e a volte duri, malinconici o respingenti come l’effetto di una pena da impartire e da scontare.
Un ostracismo pone fuori dal quadrato bianco, presente in scena come un’agorà minimal e concettuale, chiunque possa rappresentare una minaccia dell’ordine costituito o una diversità che non si è in grado di accogliere.
E peccato che questo gioco delle parti sembri colorarsi con una sfumatura di inattualità, con una traccia di meccanismo disfunzionale, dopo la prolungata assenza di contatto fisico nei due anni di pandemia mondiale.
Siamo davvero così sicuri che il rapporto di fiducia tra i corpi si costruisca e passi necessariamente attraverso la drammaticità del conflitto? Il “duello” è sempre stato un antichissimo passo a due, ma è davvero così necessario puntare l’attenzione, al giorno d’oggi, ancora su questo dispositivo scenico o pattern comportamentale?
Questo è il tempo di scelte coraggiose, è il momento di rappresentare e convivere con i nostri simili, con buona pace di Petra Von Kant (e di Putin). È sulla fiducia in assenza di conflitto, sui rapporti con l’Altro e sulle differenze tra i corpi che la danza contemporanea dovrebbe e potrebbe indagare mediante un necessario spazio di riflessione e di applicazione pratica.
Dalla competizione alla cooperazione, all’inclusione, passando attraverso la rappresentazione delle moltitudini di corpi, l’obiettivo dovrebbe essere quello di costruire una valida alternativa all’omologazione intorno a tutti quegli stereotipi e ai canoni dell’agilità, della gioventù e della bellezza che non corrispondono più alle poetiche dei nostri tempi.
Duole quindi constatare che la danza contemporanea, in Italia specialmente, non riesce ancora del tutto ad affrancarsi dai complessi, dalle recrudescenze e dalle esasperazioni morbose di un classicismo accademico, molto spesso autoreferenziale.
C’è un’altra riflessione che “Suite Escape” mette in moto, e riguarda l’impostazione concettuale sulla destrutturazione di alcuni elementi del Balletto e, più in generale, sulla Danza come forma d’arte.
Divulgando incrinature e strappi, con la scomposizione e la scissione degli assiomi, l’effetto che si realizza altro non è che quello di mettere in atto o creare nuove forme di chiusura. Quanto serve, e quanto è necessario, rompere con la tradizione?
Con questi dubbi e interrogativi è riaffiorato prepotentemente il ricordo, il ruolo, l’opera e la figura di Merce Cunningham, l’avanguardista della post-modern dance americana. Con lui in mente, a prescindere dallo spettacolo, viene spontaneo interrogarsi sulla natura della danza, che ha in sé qualcosa di misterioso, ancestrale, forse anche un’origine divina e una natura inafferrabile, indefinita, impalpabile. In quanto arte dell’hic et nunc, essa nasce e muore nella durata della performance.
“Suite Escape” sembra fin troppo definito nella ricercatezza di una forma estetica geometrica, nell’esaltazione, nella moltiplicazione in durata e in ampiezza dei gesti della partitura coreografica. Viene da chiedersi quanto sia ancora necessaria invece l’eredità di Cunningham nel rendere “impermanent” i vari linguaggi di oggi, nel rendere la danza multidisciplinare.
Vale la pena interrogarsi sul movimento nello spazio e nel tempo, sulla fusione di più danze, dentro e fuori la scena teatrale, ma anche sull’uso della tecnologia, sulla coabitazione con le altre arti. Di cosa dovrebbe occuparsi allora la danza nel 2022?
Escludendo, da un lato, l’arroccamento nel passato e, dall’altro, l’ossessione per la ricerca della (o delle) novità, possiamo concludere che anche per i danzatori e i performer è ormai imprescindibile condividere e partecipare ad una nuova e rinnovata “poetica della simultaneità” che, di per sé, non è un concetto nuovo, poiché ha caratterizzato un campo di ricerca culturale fin dai primi del Novecento.
Umberto Boccioni scriveva nel 1914 nel suo libro “Pittura scultura futuriste, dinamismo plastico”: “Simultaneità è la condizione nella quale appaiono i diversi elementi che costituiscono il dinamismo. E dunque l’effetto di quella grande causa che è il dinamismo universale. È l’esponente lirico della moderna concezione della vita, basata sulla rapidità e contemporaneità di conoscenza e di comunicazioni”.
Simultaneità e velocità nelle comunicazioni, attenzione ramificata verso la realtà circostante, l’“unità dei diversi”: sono concetti chiave importanti, e rappresentano un’impostazione metodologica utile ed efficace. Senza dimenticare quello che affermava lo stesso Cunningham: «Il mio lavoro non ha per tema la danza (It’s not about dance), ma è danza (It’s dance)».
Questo concetto, in apparenza semplice, è inafferrabile come il battito d’ali di una farfalla; esso comporta la decontaminazione, la purificazione della danza da ogni significato, emanciparsi dalle prospettive ristrette dell’ego, mettere il corpo in una condizione prossima al vuoto, di svuotamento dalle tecniche e dalle diverse discipline formative, ponendolo in una condizione di silenzio e di ascolto da cui tutto può nascere.
SUITE ESCAPE
concept/coreografia Riccardo Buscarini
musiche P.I. Caikovskij, L. Minkus, A. Adam
trascrizione/rielaborazioni Musicali M° Silvestro Sabatelli
pianista M° Benedetto Boccuzzi
danzatori Fabio Calvisi, Anabel Barotte Moreno, Nicola de Pascale, Silvia Sisto
costumi Francesco Colamorea
disegno Luci Roberto Colabufo
produzione Equilibrio Dinamico Dance Company
coproduzione Art Garage
con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese e AMAT
durata: 55′
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 12 febbraio 2022