“Sun Followers” di Sjoerd Wagenaar chiude Il Giardino delle Esperidi

Sun followers (ph: Alvise Crovato)
Sun followers (ph: Alvise Crovato)

Con “Wonderboom” Stefano Cenci presenta uno spettacolo-asta, mentre Gabriella Salvaterra trasforma Villa Besana in una “casa degli spiriti” che avrebbe affascinato Proust e Allende

Avanza inesorabile come l’estate Il Giardino delle Esperidi. Il festival diretto da Michele Losi è una boccata d’aria pura che disperde le scorie dell’inverno, mentre ci tuffiamo in una natura incontaminata, in armonia con un paesaggio che rivela orme d’arte e di storia.
Il teatro fa un passo indietro rispetto alla bellezza dei luoghi. È un atto di deferenza dell’homo faber di fronte alla natura. È facile per noi spettatori eclissarci da tecnologia e trambusti quotidiani per affidarci all’abbraccio dei boschi.
Siamo nel cuore della Brianza, sui fianchi del Monte di San Genesio, a metà strada fra Milano e il lago di Lecco. Viste mozzafiato sulle Prealpi. Selve, torrenti, colline. Il verde surclassa i veleni. Liberi dalle mascherine e dall’assillo del Covid, inspiriamo ossigeno a pieni polmoni, tra fontanili e castagni.

C’è il sapore della memoria nello spettacolo “Il fanciullino”, produzione Campsirago Residenza / Dionisi. Renata Ciaravino condensa racconti di vita di anziani raccolti negli anni nelle balere. In scena, Renato Avallone, Camilla Barbarito, Laura Pozone e Alessandro Sampaoli danno vita alla giostra dei ricordi.
Lavoro delicato sulla fragilità del tempo, sull’insolenza degli anni che si accumulano. Il Novecento sembra lontanissimo, con le guerre perennemente appisolate alle porte, eppure è solo ieri. Gioie e vicissitudini remote e vicine, tra nostalgie e acciacchi. Fatterelli carini, divertenti, oppure tristi, come un figlio illegittimo abbandonato in un brefotrofio dalla madre, mentre il marito combatteva sul fronte.
Una pièce semplice, tra aneddoti e sorrisi. La verve sapida degli interpreti sfuma gli afflati malinconici. E c’è pure il finale magico: due anziani, novelli innamorati (Martina Pontil e Osvaldo Tarelli), che si abbandonano a un ballo sognante sulle note di Leonard Cohen.

Il fanciullino (ph: Alvise Crovato)
Il fanciullino (ph: Alvise Crovato)

Settimana finale del festival con il teatro itinerante e immersivo di Campsirago Residenza. Due produzioni che sono ormai dei classici, “Amleto. Una questione personale”, e “Hansel e Gretel”. In notturna a Olgiate Molgora, la fiaba dei fratelli Grimm si tinge di ulteriori sfumature noir, assumendo i timbri di un rito iniziatico anche per gli spettatori adulti.

Un venerdì sera piovoso imbriglia “Wonderboom” di Stefano Cenci, dirottato dalla splendida veduta di palazzo Gambassi, a Campsirago, al chiuso della Sala Parrocchiale Don Gaspare Cattaneo, a La Valletta Brianza.
Lavoro tutt’altro che parrocchiale, però. Cenci non serve Dio, ma Mammona. In scena con i diabolici Chiara Davolio (anche alla drammaturgia) e Filippo Beltrami, l’autore dà il via a un autentico spettacolo asta. Si vende di tutto: dalle cartoline di Campsirago a una vecchia locandina delle Esperidi, dai dischi in vinile di Celentano a un paio di buoni kebab. E c’è pure chi, come Renzo Francabandera, artista visivo e critico teatrale tra i pionieri della nostra rivista, decide di comprare per pochi euro cassoeula e polenta, piatto della tradizione lombarda, per assistere allo spettacolo dal palco, con un giovane commensale e un bicchiere di vino.
Con buona pace dei vegetariani, “Wonderboom” è un lavoro onnivoro e impudente, che gioca sui continui rimbalzi con il pubblico in sala. È l’occasione per approfondire il luogo della performance e le persone che lo abitano, condividendo storie e informazioni.
Dire che tutto ha un prezzo è un’ovvietà. Riflettere sul valore reale delle cose, e anche sul costo dei valori (intesi come principi etici o giuridici) è un altro paio di maniche. Soprattutto se siamo usciti di casa per assistere a uno spettacolo, e siamo chiamati a decidere quanto saremmo disposti a spendere individualmente per mantenere la libertà di parola o il diritto alla proprietà privata; a quanto pagheremmo per sostenere l’aborto o la pena di morte, il matrimonio o il divorzio, l’uguaglianza o l’eutanasia.
C’è il rischio di banalizzare? Forse. A qualcuno non è piaciuta una battuta sull’aborto: «Ve ne diamo due al prezzo di uno». Ma era davvero una battuta, o piuttosto una provocazione? Il tentativo di sorvolare su un dramma o di esorcizzarlo?
Magari era solo una ciambella senza il buco. Ma questo spettacolo lascia sulla pelle comunque segni urticanti. Quanto soppesiamo le nostre scelte? In che modo incide il denaro? Spendere può significare esibire? Spendere per risparmiare è un paradosso? L’arte ha un prezzo? Le decisioni dei politici rispondono ai valori etici o a quelli di mercato? Citando infine De André, chi stabilisce il prezzo alle nostre voglie?
“Wonderboom” previene la nostra inclinazione a prostituirci, nell’atto in cui stigmatizza la nostra disposizione al consumismo. È uno spettacolo riuscito perché diverso. Perché sposta il baricentro sul pubblico come polis. Perché cambia e si rigenera a seconda dei luoghi. Perché, attraverso il sarcasmo, castiga i costumi e fissa il riscatto della nostra cattiva coscienza.

C’è il prezzo della memoria. Il tempo la corrode e ne sbiadisce i contorni. Nella splendida cornice di villa Besana, a Sirtori, Gabriella Salvaterra avvia un percorso nel labirinto delle autobiografie, fra pensieri, parole, voli e capogiri. “Tutto passa tutto resta” è un percorso site specific en plain air nei meandri della sensorialità, dentro una natura organizzata e selvaggia con cui si fonde l’elemento umano, attraversando installazioni di abiti dismessi. Ripartiti in coppie, seguiamo un filo d’Arianna che ci catapulta in una miriade di spazi diversi, abitati da figure bizzarre.
Valigie fatte di esperienze. Il tempo di chi va, il tempo di chi viene. Il tempo di chi torna e quello di chi resta. Il tempo di chi è partito senza essere mai andato via.
Un volo di specchi tra veli e rami, tra foglie luminescenti sotto il cielo azzurro tremolante di sole. E pare di scorgere, sulle nostre teste «il tremolar de la marina». Il senso della vertigine, tra voli e cadute, fluttuando nell’immaginazione.
Storie obsolete e fresche come foto, come vite cadute e promesse infrante. Nomi di luoghi, di storie, di amori, vergati su una foglia affidata a mani sibilline. Le lettere mai scritte e quelle mai spedite. Oggetti come racconti, a bagnomaria dentro teche di vetro. Il battito della Terra, Grande Madre che custodisce il senso della nostra esistenza. Il tempo della fuga e della custodia.
“Tutto passa tutto resta” è un lavoro sensoriale e onirico che confonde in una nuvola i ricordi e l’anelito a un’impossibile purezza. Un effluvio di emozioni fa vibrare le superfici smunte delle pagine della nostra vita. Come nella letteratura di Proust e Allende, fermiamo l’attimo, nel tempo di una ricerca spirituale infinita.

«Tutto finisce, tutto passa, l’acqua scorre e il cuore dimentica», diceva Flaubert. Per Antonio Machado, invece, «tutto passa e tutto resta / però il nostro è passare, / passare facendo sentieri, / sentieri sul mare».
Questo lavoro di performance e installazione, disegna mondi «lievi e gentili, / come bolle di sapone». Il tempo custodisce e cancella. “Tutto passa tutto resta” è un itinerario interiore di sguardi e ascolti, di fili sospesi tra passato e futuro, dentro una natura maestosa anche quando è il microcosmo di una villa.
Insieme a Simona Mazzanti, Arianna Bartolucci, Claudio Ponzana, Davide Sorlini, Laura Torelli, Monica Varroni, Annalisa Zoffoli, Gabriella Salvaterra costruisce un’affabulazione di segni e sogni senza rimpianti.
Al termine del viaggio, vediamo scorrere sulla paglia, sotto di noi, centinaia di piccoli insetti. Formiche e vermi di un’epoca atavica, attorno a un palazzo dismesso, le cui rovine mantengono inalterata la bellezza del tempo e l’impronta di un futuro che consumerà anche il ricordo di noi.

«Viandante, sono le tue orme / il sentiero e niente più; / viandante, non esiste il sentiero, / il sentiero si fa camminando. / Camminando si fa il sentiero / e girando indietro lo sguardo / si vede il sentiero che mai più / si tornerà a calpestare».
Machado ci viene incontro anche per “Sun Followers”, camminata performativa ispirata al mito di Orfeo ed Euridice, a Giordano Bruno, ma soprattutto alla natura intorno alla Piramide di Montevecchia, altra novità di questo festival.
Siamo sopra un gigantesco fazzoletto di terra appallottolato, e stupisce come Michele Losi, battendo la Brianza palmo a palmo, riesca a scovare posti sempre nuovi, da trasformare nella relazione con i corpi. Si cimenta con questa possibilità anche questo lavoro, costruito con Sjoerd Wagenaar in armonia con il cammino del sole, al cui tramonto assisteremo dietro agli alberi, con le loro insenature come occhiali dai vetri a specchio. Un percorso che crea le fila di una comunità, che si irraggia tra sentieri e colline, animati dai testi dello stesso Wagenaar, di Bruno e di Rilke. Intanto, evanescenti creature femminili (Noemi Bresciani, Ladislaja Pietrangerli, Giulietta De Bernardi) si materializzeranno con la sottigliezza di ombre, ad agitare il paesaggio in modo tenue.
Quest’arte performativa è labile come un segno nell’acqua, come un graffito tracciato nell’aria. Ma se il saggio indica la luna, il nostro sguardo non si ferma al dito. Apprezziamo questa natura ora incontaminata, ora capace di dialogare con l’uomo, come nei lunghi filari di vite. Come un cannocchiale, estendiamo lo sguardo verso un altrove immaginifico.
Inseguiamo le performer come si prova a scovare un fantasma. È una regia cinematografica quella di Wagenaar con la supervisione di Losi, con alternanza di sequenze mobili e statiche. Dominano i campi lunghi e lunghissimi su quelli medi o a figura intera. Cambiano continuamente altezza, angolazione e inclinazione. La profondità di campo consente allo spettatore di decidere dove dirigere lo sguardo.
Alle Esperidi l’arte dà prova di saggezza, e compie un passo indietro rispetto alla natura. Rimane sullo sfondo la musica elettronica originale di Luca Maria Baldini davanti alla voce di Sebastiano Sicurezza, un attore sempre più capace di suggestioni sonore, di variazioni di timbri e registri, dalla recitazione al canto. Fra cipressi, massi di granito e gradoni, risuonano i versi di “Orfeo ed Euridice” di Rilke. Siamo fra le Piramidi di Montevecchia: da lassù, almeno quaranta secoli ci guardano.
La poesia di Rilke, invece, ha “solo” 120 anni. Ma risuona, sacra e solenne, attraverso le corde vocali di un novello guitto della scena italiana.

0 replies on ““Sun Followers” di Sjoerd Wagenaar chiude Il Giardino delle Esperidi”