Prima di tutto e alla fine di tutto c’è un personaggio, Pier Paolo Pasolini. Una delle figure della cultura italiana divenute negli anni un’arma intellettuale estremamente efficace. Il filo di questa lama di ragionamento si è fatto via via più letale con l’allontanarsi della data della morte dello scrittore. In un certo senso, legato com’era Pasolini al formarsi di una mentalità di opposizione comunista, con il suo divenire anacronistico si è affievolita anche la sua forza reale, sostituita dalla nemesi peggiore: la moda. Al giorno d’oggi non è più rischioso, non è più originale, non è più uno scandalo parlare di Pasolini, mettere in scena o in immagini la sua rabbia. Perché ormai la faccia di Pasolini è come quella di Che Guevara sulle magliette o sui tatuaggi. Guscio che, rimasto intatto negli anni e copertosi di oro, non si può più sapere se sia pieno o vuoto.
“Delitto Pasolini”, spettacolo del 2010 della stessa compagnia, ruotava attorno all’ipotesi, caldeggiata dal pittore amico del poeta Giuseppe Zigaina, che la morte violenta fosse un’uscita di scena progettata dallo stesso Pasolini a completamento della propria esistenza cristologica. Ora è tempo per un passo ulteriore.
Il progetto di CK Teatro è quello creare un affresco iconoclasta e fuori dagli schemi che rappresenti l’anima marcia del potere, quella schiera di eminenze grigie che da sempre amministra l’Italia. Nell’anno in cui tutti si riempiono la bocca del numero 150, per festeggiare un anniversario che mette i brividi, Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi mettono a punto il primo capolinea del loro progetto di ricerca teatrale. CK sta per Colossal Kitsch e una volta tanto, bando al fumo negli occhi, il nome della compagnia prende sulle spalle tutta la responsabilità di un messaggio.
I passi compiuti con “La terra desolata” avevano gettato qualche seme. Allora CK era ancora Progetto Goldstein e Fabio Morgan aveva già in testa un percorso sui totalitarismi, tanto da vestire i panni stretti del Furher e scomodare T.S. Eliot. L’impressione, due anni fa, era stata di fare un giro su una macchina senza freni. Era stata poi la volta di “Being Hamlet”, accostamento tra il personaggio di Amleto e quello di Adamo che muoveva a fatica uno spettacolo sorretto da presupposti tematici e di ragionamento forse troppo ambiziosi, di certo criptici e di eccessivo peso specifico.
Quello che lì costituiva una scelta radicale (l’intero spettacolo era un susseguirsi di videoproiezioni e voce fuori campo), appesantendo eccessivamente la materia, in “Superstar” trova un momento di maturità. Stavolta resiste una struttura altrettanto radicale ma governata da un andamento più omogeneo: due maxischermi, una divisione in quadri. Ciascun quadro presenta, contemporaneamente, una scena live da un lato (recitata dagli attori al di là del velatino) e una proiezione dall’altro. La narrazione prende “Petrolio” – opera in cui Pasolini ipotizzava inquietanti collegamenti tra l’omicidio Mattei e le stragi di stato – e lo usa come trampolino per spiccare un volo immaginario attraverso quattro momenti topici della storia d’Italia, incarnati in altrettanti simulacri del potere: Eugenio Cefis, Giulio Andreotti, un generale del Sisde e quello che probabilmente è Totò Riina (tutti interpretati da Emiliano Reggente). A incontrare questi quattro personaggi è l’ingegner Carlo Valletti (Fabio Morgan), una sorta di silenzioso Dante attraverso l’Inferno, che pronuncia solo la frase “accetto”. Nell’ultimo frammento lo stesso Valletti reciterà, seduto alla scrivania, il discorso di “discesa in campo” di Berlusconi, capolinea del ragionamento. I video sono allegorie kitsch che ritraggono lo stesso Valletti, preda di una frenesia onanistica, alle prese con i simboli di quell’Italia della corruzione, in un’orgia di automi che mescola follemente le carte fino a creare un pastiche inaudito. E in qualche modo seducente.
A fare da intermezzo a ciascuno dei quadri, un Pasolini immobile, statua di cera dentro una camera oscura, la cui voce fuori campo racconta alla rinfusa – in quel parlare poetico e ipnotico – un film scena per scena, descrizione, sublimata nella Settima arte, di una società che precipita sottoterra, al ritmo di un amplesso glorioso.
Coraggioso, bislacco, ruvido, appariscente, nauseante, confusionario e offensivo, lo spettacolo di Fabio Morgan, Leonardo Ferrari Carissimi e Andrea Carvelli è un grido contro la banalizzazione delle idee, una sinfonia barocca che sa di mela caramellata e cicche di sigaretta, viaggio disorientante attraverso una poetica radicale che ricopre gli angoli bui della nostra storia con paillettes di odioso senso comune. Se è molto chiara l’intenzione – frutto di un evidente e accurato studio – di mescolare tutti gli ingredienti reali in un calderone di rigurgito iconoclasta, nel suo rigore formale lo spettacolo soffre di un ritmo troppo blando e affiora comunque un rischio, quello che le parole di Pasolini (riscritte dagli autori con abile mimesi) e soprattutto il suo pensiero restino come bandiera bianca in mezzo a un mucchio di cadaveri imbellettati. Potrebbe essere questo lo scopo, ma perderemmo del tutto la potenza stessa che ne ha amplificato il senso fino a tramutarlo in messaggio. In altre parole, occorre un controllo enorme per attuare il passaggio di stato e far cadere sul fondo l’obiettivo di questa rigorosa operazione su kitsch e anti-cultura pop. Qualità che, raggiunta, farebbe di questo interessante spettacolo un prodotto di primissimo livello.
SUPERSTAR
da Petrolio di Pier Paolo Pasolini
scritto da Fabio Morgan, Leonardo Ferrari Carissimi, Andrea Carvelli
interpreti: Fabio Morgan, Emiliano Reggente
produzione: CK Teatro
scene e costumi: Alessandra Muschella
disegno luci: Andrea Carvelli
durata: 1h 02′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro dell’Orologio Sala Orfeo, l’11 febbraio 2011
Visto ieri, piaciuto molto, con qualche dubbio etc, per esempio sulla scena del generale del Sisde che è quella che mi ha convinto meno per eccesso di veterosinistrismo extraparlamentare e didascalicità nei contenuti, e sulla struttura un po’ meccanica dell’insieme, ma molto piaciuto.
Oh, speriamo che diventando eventualmente un prodotto, come lo è già un po’ diventato Pasolini, lo spettacolo resti interessante!
QUanto siam sempre più spensierati ad applicare la parola prodotto al nostro lavoro! Mi mette un poco i brividi…