I teatri chiudono di nuovo: la retorica insopportabile del decreto governativo

Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della retorica e dell’incoerenza; lo spettro dell’incapacità e dell’occultamento dei dati.
Il nuovo Dpcm Covid del 24 ottobre 2020 firmato ieri dal presidente Conte, e in vigore da oggi, sospende di nuovo «gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto».

La situazione epidemica in Italia, in Europa, sull’intero pianeta, sta assumendo proporzioni preoccupanti, e nessuno può essere così sciocco da voltarsi dall’altra parte, o così distratto da pensare che si possa prescindere da misure draconiane.
Abbiamo perso tempo importante. Abbiamo aperto tutto, e abbiamo trascorso un’estate baldanzosa nei luoghi di vacanza: c’è chi si è abbandonato a grandi bevute e assembramenti, balli, viaggi, feste e tripudio, come se questa danza macabra potesse esorcizzare uno dei periodi più bui della nostra epoca. Da giugno a settembre abbiamo rimosso il lockdown, in molti casi lo smart working, la didattica a distanza, l’isolamento che per due mesi aveva bloccato gli spostamenti, dividendo famiglie, amori, amicizie. L’incubo era finito.

Intanto, le categorie più penalizzate dei lavoratori, sopravvissute alla tempesta che aveva scosso luoghi di cultura, negozi, ristoranti, aziende varie, si riaffacciavano timidamente alla vita normale. Riaprivano i teatri, gli spettacoli all’aperto sfruttavano la bella stagione, magari un minuto dopo la mezzanotte del 15 giugno, data della riapertura delle sale. Che venivano “prese d’assalto” per la voglia di ritornare alla vita di prima, pur nel rispetto del distanziamento e delle misure di contenimento del virus. Appassionati di teatro in crisi d’astinenza inondavano gli attori con il loro affetto.
Ascanio Celestini riapriva le danze al Teatro Sperimentale di Pesaro con il suo monologo cult “Radio clandestina”, titolo simbolico per riprendere il dialogo interrotto due mesi prima con la serrata parziale del 24 febbraio e quella totale dell’8 marzo.

Nel frattempo il web, durante il confinamento, aveva favorito la sperimentazione di nuovi linguaggi. Tuttavia il teatro si nutre dell’odore del palcoscenico: non c’è alternativa alla relazione con il pubblico, fatta di sguardi, palpiti, respiri. Finita l’epoca dei videoparty e dei webinar, il teatro è riniziato quando lo spettatore si è potuto sedere di fronte all’artista, creando con lui quel rapporto speciale che non esiste in nessun’altra rappresentazione.
Noi non abbiamo dimenticato la condizione di vuoto e di totale incertezza sul futuro che aveva destabilizzato gli attori, sopprimendone la voce, svilendone l’identità.
E ricordiamo bene il senso di liberazione che permeava i primi spettacoli: i sorrisi, le lacrime, gli abbracci. La gola afona degli artisti ricominciava a scaldare le corde vocali.

Quel teatro ha continuato a sentirsi in bilico. I tecnici non hanno mai smesso di cambiare i filtri dell’aria. I gestori non hanno smesso di pretendere la mascherina, di propinare igienizzante, mandando biglietti virtuali all’indirizzo mail per evitare contatti diretti. E poi la cura maniacale nella distribuzione dei posti, la distanza in sala, l’attenzione perché ogni spettatore potesse assistere allo spettacolo nel modo migliore. C’era, in questi dettagli, un senso di fragilità, la coscienza che il minimo errore poteva costare una nuova chiusura.

Non è servito a niente. Il nuovo decreto chiude teatri, cinema, concerti.
Quanto tempo buttato. Quanti deliri di esperti che sentenziavano che il virus era clinicamente morto. Quanti provvedimenti velleitari, nel frattempo. Come quello della ministra Paola De Micheli, che a fine agosto prometteva la soluzione del problema dei trasporti pubblici estendendo «il concetto di congiunti a colleghi di lavoro e compagni di classe». O come le reazioni piccate della ministra Azzolina (sostenuta dal premier Conte) che impugnava la didattica a distanza alle scuole superiori. Una didattica a distanza che migliaia di docenti, da oggi, stanno propinando non da casa, bensì da scuola, prendendo i mezzi pubblici, alimentando il contagio che fa della scuola uno dei luoghi meno sicuri.
Chiacchiere e slogan a parte, i dati reali dicono infatti che la curva del contagio nelle aule è doppia e tripla rispetto al resto della popolazione. È una mistificazione, dunque, che «le scuole sono il posto più sicuro». E a riprova che il contagio non è frutto solo dei comportamenti sconsiderati dei ragazzi, ci sono i dati che riguardano la diffusione del virus tra il personale scolastico, il doppio rispetto alla media del resto della popolazione.
Gli studenti possono abbassare la mascherina nei luoghi chiusi a distanza di un metro; invece a teatro (dove la mascherina proprio non la abbassi), e anche per gli spettacoli all’aperto, distanziamento di due metri e mascherina sarebbero inefficaci a contenere il contagio.

«La parola si gonfia come un muscolo, e viene fuori la retorica» diceva il giornalista Gianni Brera. Ricordiamo bene le promesse dei vari Conte, Azzolina e del ministro Franceschini: la cultura è sacra, la scuola è cultura, la scuola non si tocca, l’ultima cosa che si chiude sono le scuole. Eppure almeno i prof delle superiori, se si organizzano, possono lavorare bene anche a distanza, e senza decurtazione di stipendio. E allora il Governo che fa? Chiude i cinema, perché i cinema non sono cultura. Chiude i teatri, perché i teatri non sono cultura.

La cultura che insegniamo ai nostri ragazzi è che teatro, cinema e musica sono categorie inutili. E insegniamo che chi lavora in questi settori può morire: la loro morte non ci riguarda. Ecco cosa insegniamo: la cultura del cinismo e dell’ipocrisia.

Sono tanti gli appelli del mondo culturale perché riaprano i cinema e i teatri, mentre per il momento le biblioteche (con servizi ridotti all’essenziale) e i musei, classificati dal Mibact come istituti di cultura, rimangono aperti: fino a quando?

«L’evidenza statistica – si legge in una lettera scritta dagli assessori alla Cultura delle principali città italiane, da Milano a Palermo – dimostra che oggi proprio i teatri e i cinema sono, in virtù del senso di responsabilità dimostrato nell’applicazione delle misure medico-sanitarie da gestori, lavoratori e pubblico, i luoghi più sicuri del Paese, insieme a musei, spazi espositivi ed altri luoghi della cultura, mantenuti aperti dal Decreto. In questa luce, la sospensione degli spettacoli appare ingiustificata visto che le misure disposte considerano invece compatibili altre attività che per la propria natura non possono garantire i livelli di protezione adottati nei luoghi di spettacolo, e negli altri luoghi della cultura come musei e biblioteche, per il pubblico come per gli operatori».

Cinema, biblioteche, teatri, gallerie, ristoranti, sport sono presìdi attivi di socialità e formazione sul territorio, svolgendo un’azione educativa anche sul rispetto delle regole.
Citando le parole di Andrée Ruth Shammah, direttrice del Teatro Franco Parenti, «siamo importanti per la società civile perché vi supportiamo nel vostro difficile compito istituzionale a mantenere elevato lo spirito dei cittadini, nella piena consapevolezza delle sofferenze che stanno incontrando a livello personale, familiare e professionale. È soprattutto in questa seconda ondata che ne avremmo più bisogno. Il teatro e il cinema non possono fermarsi perché sono la riserva invisibile di senso, per la vita pubblica e individuale dei nostri concittadini. Tuteliamo la parte visibile di questa riserva di senso».

Il ministro Franceschini oggi ha replicato alle proteste del mondo culturale affermando che chi contesta non capisce la gravità della situazione: “Non è stata una decisione gerarchica. Dovevamo ridurre la mobilità”.
Immaginate, voi, autobus pieni di persone per andare a vedere uno spettacolo di teatro con i posti contingentati, e che magari inizia alle 18?
Arriveranno gli aiuti economici, assicura il ministro, ma tanti non hanno ancora visto quelli del primo lockdown.

Eppure certe valanghe di persone (molti dei quali ragazzi) ai centri commerciali il pomeriggio, o magari ai grandi magazzini, sembrano essere tollerate, buoni consumatori di merci che “fanno andare avanti l’economia”, ben lontane dal diventare consumatori di quei temuti – inutili? – beni culturali.

Amici del teatro, del cinema, della musica: noi siamo dalla vostra parte. Questo decreto è un’ingiustizia. Garantisce chi ha violato le regole, colpisce chi le ha rispettate. Noi non smetteremo di indignarci. Non smetteremo di gridarlo.

La parola cultura ha la stessa radice di culto. Avrebbe meritato le stesse attenzioni.

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