La direttrice Roberta Nicolai: “Non riesco a immaginare niente di più irresistibile”
Lo spazio Micro 104 a Centocelle, dove Roberta Nicolai e i suoi collaboratori presentano il catalogo della diciassettesima edizione di Teatri di Vetro, il festival dicembrino della capitale, è veramente “micro”: c’è giusto lo spazio per una decina di sedie e due tavoloni con vino freddo, stuzzichini, materiali stampa. Ma grazie a due laptop quel piccolo luogo è aperto ad almeno altri dieci stanze o sale, o studi in Italia e fuori. Alla presentazione partecipano infatti, a distanza, quasi tutti gli artisti che saranno presenti al festival; dentro, invece, i romani del gruppo, oltre ad alcuni ospiti del cuore: «Noi c’eravamo dalla seconda edizione – ma solo perché nella prima non esistevamo!», rivendicano il primato Francesca Macrì e Andrea Trapani di Biancofango. E a ruota Tamara Bartolini, Alessandra Cristiani dicono la loro.
A uno verrebbe quasi da definirlo un museo di esperienze, se l’idea statica del museo non fosse la cosa più lontana da un organismo fedele al movimento come è Teatri di Vetro, anche quest’anno negli spazi del Teatro del Lido di Ostia (la sezione laboratoriale, Composizioni, il 10 e 13 dicembre) e del Teatro India (Oscillazioni Ambienti il 14 e 15 e Oscillazioni dal 18 al 22).
Se fosse un museo – se proprio dovesse esserlo – sarebbe una galleria (con)temporanea, in cui gli artisti arrivano, se ne vanno, ritornano e si trovano, e qualcuno la chiama casa. È il caso di alcuni dei nomi fatti sopra e di altri, come quello di Paola Bianchi, il cui percorso ormai da anni fa sponda sulla curatela di Nicolai, presente al festival con due lavori, “Brave” con Valentina Bravetti il 20 e “Fabrica 16100 [Genova]”, una nuova tappa del suo progetto sul corpo dei lavoratori e delle lavoratrici, il 21.
Ed è il caso, quello dei ritorni, della danzatrice/architetta Lucia Guarino (con Ilenia Romano il 22), di Opera Bianco il 18 con “Time is out of joint”, di Roberto Corradino il 21, di “Maternità” di Chiara Lagani (Fanny & Alexander) il 22. Entra poi nel giro anche il duo franco-italiano Cie MF con “Ça ira” (il 22, ancora) e “Ça ira ou pas” il giorno precedente, progetto il primo e “conferenza danzata” il secondo.
Cos’è appunto un’opera mentre si fa, mentre si distilla o si agglomera in materiali da fissare o da mettere da parte; cos’è un’opera prima-che-sia-opera, ancor meno stabile di quanto instabile possa essere un lavoro teatrale, imperfetto di replica in replica, sempre libero per statuto di ripensarsi e di andare incontro, come un rabdomante, a qualcosa?
Da diciassette anni è questa una delle principali questioni che muovono un progetto unico, non solo a Roma, che segue una piccola scalpitante “scuderia” di progetti (dall’anno scorso vi è entrato, ad esempio, quello del duo Bravini/Incarbone, “Fallen Angels”, che vedremo all’India il 18), che dedica al tema del processo giornate di condivisione di pratiche e di riflessione critica a Tuscania, in settembre, e, soprattutto, che persegue nella missione di presentare per la prima volta al pubblico lavori in fieri, materiali non esaustivi, appunti di viaggio, occasioni di confronto dialogiche.
Un’altra questione aleggia nel bugigattolo centocellino: se la ‘scusa’ della presentazione del catalogo per raccontare, attraverso quelle scritture, come sarà un festival sia giustificabile («sono lettere sempre inattuali, le sinossi», dice la direttrice artistica, perché scritte prima e disinnescate inevitabilmente dal lavoro in campo, nella sua tangibile carne spettacolare), se questo catalogo abbia poi davvero un rapporto con la materia di ciò che andrà in scena. La risposta suggerita è che sì, ne ha, perché lo stesso progetto di Teatri di Vetro è «fatto della stessa materia dei suoi oggetti», una materia liminale, marginale nel senso – cita Nicolai – «di un margine che attraversa i corpi», che si sposta con loro.
E così, tanto per aggiungere legna a questo fuoco vivo, nelle corpose pagine del libriccino con sinossi, editoriali ed estratti critici (Luca Lotano, Michele Pascarella, Lucrezia Ercolani…) dialogano le candide, incredule, allibite fotografie di Tiziano Demuro – immagini in cui protagonista è la deviazione, la quieta, non necessaria ma ineliminabile tensione del prevedibile a lasciarsi sparigliare, la fiducia in un ricciolo di caos che bruci l’ottuso progredire di una formula nota: ora un modulo di pavé si incurva, ora una ruota di passeggino fa da ombrello sopra il sostegno di un arbusto, un parquet o una caditoria deragliano allo sguardo, interrotti nei loro spenti pattern, tendendo inciampi.
Anche gli oggetti teatrali di Teatri di Vetro sono per tradizione un inciampo: ai comuni approcci di visione, certo; alla routine anche produttiva, che richiede sempre agli artisti una solidità nelle proposte, una compiutezza assertiva. Tali oggetti scenici hanno dimostrato di saper prevedere, attorno a sé, una platea aperta, che parte dagli stessi addetti ai lavori, i quali, serata dopo serata, prima e dopo le proprie esibizioni, non mancano come pubblico alle performance che precedono o seguono; e che non trascura gli studenti di scuole e università, per i quali sono stati pensati ingressi a prezzi veramente popolari, e pubblici solitamente trascurati, come i ciechi che, rarissimo caso a Roma, potranno avere l’audio-descrizione di due dei lavori più attesi, quelli di Opera Bianco e “Brave” di Bianchi.
Ecco, questa sarebbe veramente la compiutezza di un’impresa come Teatri di Vetro: che spalancasse sempre più la propria platea, che lanciasse agli spettatori impossibili, invisibili, inesistenti, ai bambini, agli attori, ai commercialisti, agli uccelli del cielo la sfida all’immediatezza della fruizione di quei suoi oggetti – “non cercare di capire. Senti” dichiara l’editoriale d’apertura. Quegli oggetti teatrali saprebbero allora davvero, e fino in fondo, portare alla vita qualcosa di inesistente e inventabile, al pari del mondo che disegnano al loro interno. “Un mondo inventato: non riesco a immaginare niente di più irresistibile”, si lascia sfuggire Nicolai. E chi ci riesce?