Maschere, oggetti che hanno la forza del relitto, umanità ambigue; questo è il mondo che emerge dalla personale del Teatrino Giullare in corso la settimana scorsa sulle assi di legno del piccolo Teatro I di Milano.
Un luogo, quello del Teatro I, che perfettamente si addice alla poetica dei due artisti, e sul quale in cinque giorni un mondo teatrale si è presentato e lentamente ha coinvolto il pubblico.
Non è facile il Teatrino Giullare. Quello che la compagnia propone è infatti un lavoro sul linguaggio verbale e corporeo che pretende dallo spettatore una partecipazione attiva di ricostruzione dei segni, di interpretazione e codifica che necessita di tempo e disponibilità.
Beckett, Pinter, Koltès e Bernhard gli autori affrontati (“Finale di partita”, “La stanza”, “Alla meta” e “Lotta di negro e cani”). Una scelta indirizzata alla drammaturgia contemporanea per mettere a fuoco lo studio su “l’artificio in scena”, iniziato nel 2005 dal duo Ongaro /Deotti, con lo scopo di esaminare l’anima intima dei testi attraverso l’uso di artifici, appunto.
La compagnia, nata dall’incontro al corso di Drammaturgia tenuto da Giuliano Scabia al Dams di Bologna, ha per anni affrontato il terreno dei classici, dall’Alcesti di Euripide (loro debutto del 1995) a Plauto, per poi passare alla Commedia dell’Arte e al mondo di Shakespeare, con un atteggiamento di rivisitazione del testo attraverso l’accostamento di materiale vivo e morto.
Da ormai sette anni il loro indirizzo drammaturgico è cambiato, la contemporaneità è diventata terreno di scoperta, ma il corpo degli attori e quello degli oggetti continua ad esser mescolato sul palco, forzando il pubblico ad un atteggiamento diverso nei confronti della ricezione del testo.
Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti sono in continua ricerca, e questo appare evidente dalla varietà stilistica dei quattro testi presentati a Milano, che non tendono ad una cifra unitaria ma nascono invece dall’esigenza poetica comune con cui i due artisti approcciano le diverse drammaturgie.
Non è la scena che guida, ma il senso profondo del testo a farlo, e questo porta ad una sintesi e creazione di segni visivi e concettuali di diversa natura, senza escludere alcuna possibilità.
Da questo punto di vista, è interessante l’accostamento di forme teatrali antiche quali il teatro delle ombre, largamente usato in “Lotta di negro e cani”, a quelle contemporanee come la video proiezione in “La stanza” di Pinter o, ancora, l’evocazione di atmosfere attraverso uno strumento tribale africano come la kalimba e un lavoro di amplificazione dei suoni e della voce attraverso microfonazione.
Si è di fronte ad esperimenti che possono o meno coinvolgere lo spettatore, ma che sicuramente hanno la forza e il coraggio della ricerca.
Unica cifra comune a tutti e quattro gli spettacoli è il mascheramento.
Maschere e personaggi pedina su una scacchiera per Beckett; grottesche maschere in silicone semirealistiche in Pinter; un camouflage feminino-mascolino in Koltès, e maschere d’argilla argillose, simili a scogli, in Bernhard.
Proprio dopo Bernhard ho l’occasione di incontrare Enrico Deotti, e discutere con lui del loro lavoro.
La prima domanda è inevitabile. Cosa intendete con la formula di “attore artificiale”?
C’è un rapporto molto interessante tra vivo e morto, oggetto e carne. Abbiamo visto che il metterli a confronto in scena creava delle ambientazioni non realistiche che portavano a lavorare di più sulla parola, sul fare arrivare meglio il testo. Possiamo dire, semplificando, che il lavoro è quello di tentare uno spostamento della percezione sensoriale dello spettatore: la spostiamo e la mettiamo su una prospettiva diversa, come inclinandola, in modo che la parola arrivi in modo più penetrante, mai ascoltato. Togliendo tutti quegli orpelli della mimica facciale, o tutte quelle piccole astuzie dell’attore, che cerca di prenderti in altri modi, rimane la parola.
E’ vero che togliete all’attore la mimica e le sue astuzie, ma le vostre maschere non si possono certo definire neutre. La loro fisionomia e presenza è molto forte e caratterizzante.
Noi dobbiamo trasferire alle maschere un principio vitale, altrimenti resta poca cosa. Per ogni testo è diverso e allora ogni volta, a seconda di come è il testo, cerchiamo di individuare quale è il principio vitale che dobbiamo trasferire.
Proprio riguardo a questo principio vitale, guardando i vostri allestimenti e la loro forte sintesi visiva, qual è il vostro primo approccio al testo?
Non ci possiamo perdere, perché non ce lo possiamo permettere, altrimenti si ricadrebbe nel morto. Quindi dobbiamo sintetizzare trovando la forza e, nell’equilibrio tra parole, la nostra fisicità e la fisicità propria dell’oggetto.
Riguardo invece alle maschere, come avviene l’ideazione e la scelta di materiali così differenti, dal legno in Beckett al silicone in Pinter?
La scelta dipende dai testi. Nel caso particolare di Pinter il problema è quello dell’identità, dell’ambiguità del personaggio, che non si sa chi sia: chi sia lei, cosa il marito faccia e perché si comporta così, se il padrone è davvero il padrone di casa, chi sono quei due e perché son lì dentro… Il problema che ha posto Pinter è proprio l’identità del personaggio, e noi lo accentuiamo rendendolo visibile attraverso delle maschere pseudo realistiche ma che si capisce sono maschere, anzi noi lo facciamo proprio vedere deformandole. Non ti capita mai più nella vita l’occasione di alzare la faccia a qualcuno e chiedergli: tu, chi sei veramente?
E il lavoro di caratterizzazione corporale del personaggio nasce prima o dopo la maschera?
Dipende dai casi, in Pinter dopo.
E’ interessante la vostra intenzione di far coesistere elementi di un teatro antico, come quello di figura o delle ombre, con altri legati a una forte contemporaneità.
Questo dipende sempre dalle idee che arrivano dal testo. In Pinter, per esempio, l’idea della proiezione del palazzo è per rendere l’immagine che quello sembra un palazzo, ma tutti capiamo che non lo è. È come metter la maschera anche al palazzo.
Tra le vostre produzioni ce n’è una che mi ha colpito, in quanto sembra distanziarsi da un vostro “filone”. Si tratta di “Coco”. Cosa vi spinge a parlare di Coco Chanel oggi?
Nel 2009 abbiamo messo in scena per la prima volta in Italia il testo di Koltès, inedito e mai rappresentato qui. Cadeva il ventennale della sua scomparsa e ci fu proposto di farlo. Lui l’aveva dedicato a Coco Chanel prendendo come centro il suo ultimo giorno di vita, in un modo tutto suo. L’abbiamo quindi fatto ma, lavorando su un piccolo frammento, come performance, abbiamo accumulato talmente tanto materiale bello che non volevamo andasse perso, e quindi abbiamo scritto questo testo approfondendo proprio il suo ultimo giorno di vita. Non ci interessa tanto il personaggio di Coco Chanel quanto il tema della leggenda, un mito contemporaneo. Su di lei sono state scritte centinaia di biografie in cento lingue diverse, e tutte dicono cose differenti
Il tema della leggenda quindi, del “tu sei quello che gli altri dicono di te” era accattivante. Le cento maschere che ti mettono gli altri anche se tu sei te stesso, e non sai bene chi sei, perché se gli altri dicono altre cose di te cominci a diventare altro.
Siete molto attivi a livello internazionale. Di cosa tratta I Commedianti?
I Commedianti è un progetto di cui ora si sta avvicinando la seconda parte. È una specie di analisi sull’eredità della Commedia dell’Arte nel teatro classico italiano. Una sorta di visione contemporanea su frammenti ed eredità, anche tecniche, che si sono tramandate.
È molto interessante perché chi lavora adesso la Commedia dell’Arte ha ripreso certi stilemi e li rimette in scena ma spesso in modo fine a se stesso, senza una funzione vitale contemporanea. Stiamo quindi lavorando in questa direzione e dovrebbe partire il prossimo autunno, in Indonesia.