Incontrare Enrique Vargas è sempre un’esperienza un po’ disorientante. Del resto, sullo smarrimento e sul perdersi, il regista, antropologo, raccontastorie colombiano, classe 1940, ha fondato la sua ricerca artistica. Trapiantato da anni a Barcellona con la sua compagnia, è lì che ha trovato casa la scuola di linguaggio sensoriale che porta avanti nella suggestiva sede del El Polvorì.
Lo incontro stavolta a Il Funaro, il centro culturale e di produzione teatrale e artistica di Pistoia, che ora è anche sede italiana del suo Teatro de los Sentidos grazie all’amicizia e alla collaborazione con Andrès Neumann.
In realtà noi ci conosciamo dai tempi de “El hilo de Ariadna”, enorme labirinto allestito nel ’93 nei sotterranei della Universitad Nacional di Bogotà, primo di una serie di percorsi ludici e sensoriali (“Oracoli”, “La memoria del vino”, “Piccoli esercizi per il buon morire“, “La Eco de la Sombra”, “Cuore di Tenebra”, “Projectos habitantes: Syngapur”, “Visitare Palermo”… per citarne alcuni), che hanno girato per anni con successo le capitali sudamericane, europee ed asiatiche.
Si tratta di labirinti in cui gli spettatori (o “viajeros”) sono i protagonisti del gioco, entrando uno alla volta o a piccoli gruppi e condotti dagli attori (o “habitantes”) lungo un cammino tattile, sonoro e olfattivo, offerto in alternativa alla ‘tirannia del visuale’ e tuttavia ricco di tracce visive raffinate, curate nei dettagli e suggerite, intraviste, per questo fortemente evocative. Percorsi sensoriali mai del tutto seri che, risvegliando la memoria del corpo, riescono a toccare con grazia corde inconsuete, a suscitare inquietudine e stupore, ad affrontare il tema della morte. A spiazzare, appunto, come il loro regista.
“Il Filo di Arianna”, ad esempio, si ispira al mito del Labirinto, di Teseo e del Minotauro. All’interno di quel percorso si fa esperienza, in maniera delicata, di eventi archetipici: la nascita, l’infanzia, la morte. C’è una stanza con giocattoli, una lavagna, il profumo della matita e del gesso… Il pubblico ne esce in genere molto emozionato.
Il coinvolgimento degli spettatori va di pari passo con quello degli attori. Vargas sa valorizzare le persone con cui lavora, sfruttare le loro potenzialità: gli attori del Teatro de los Sentidos sono anche scenografi, musicisti, organizzatori, si occupano dell’ufficio stampa, cuciono le tele del labirinto, lo costruiscono… un’esperienza molto formativa. E questa sua capacità di coinvolgere gli attori si riflette anche nel rapporto con il pubblico.
Prendiamo “Abitare Palermo”. Gli spettatori entrano a piccoli gruppi. In una delle prime stanze, un personaggio misterioso li conduce presso un immenso plastico della città di Palermo, che poi, in silenzio, taglia a fette come fosse una torta. Ai visitatori viene consegnata una porzione della propria città con il tacito compito di ricomporla; il pubblico si ritroverà quindi, stupefatto e divertito, a improvvisare con degli sconosciuti un surreale lavoro di équipe per ricostruire e ripensare la propria città.
Appena mi vede, Enrique Vargas dice serissimo, e sono le prime parole dopo dieci anni: «Sai Maria, ho un problema». Mi guarda con aria grave: «Ultimamente ho preso a giocare molto alla lotteria». E senza darmi il tempo di capire: «Però se vinco, mollo tutto e apro una discoteca a Rimini!».
Poi ride e mi invita a pranzo con i partecipanti al laboratorio sulla memoria tattile e olfattiva che sta tenendo al Funaro: “Bisogna immaginare per provare delle sensazioni”. Vargas sostiene che sentiamo gli odori in ogni momento della nostra vita, ma solo attraverso l’immaginazione ce ne rendiamo conto. E nel laboratorio invita i partecipanti ad esprimere sentimenti, ricordi, un flusso di pensiero spontaneo a partire dallo stimolo di alcuni profumi, percepiti senza l’aiuto della vista.
Come nasce il tuo lavoro sulle sensazioni sensoriali? Quando hai deciso di approfondire questa ricerca?
Tutto il mio lavoro ha origine dai giochi che facevo da bambino. E’ stato determinato dalla libertà che mi dava mia madre per giocare. Da lì viene tutto ciò che faccio, ed è una fonte che non si inaridisce.
Quando hai lavorato a La Mama, a New York, avevi già l’idea di intraprendere un lavoro di ricerca sensoriale?
Certo, perché il lavoro de La Mama aveva a che fare con la celebrazione, era sempre parte di una celebracion callejera (celebrazione di strada), di una festa. Le opere non le facevamo nei teatri ma come parte di una cerimonia: quando cadevano le ricorrenze dei santi patroni delle varie regioni di Portorico, ogni strada, la 110, la 104, che era abitata da portoricani provenienti dalla stessa regione, portava in processione il proprio santo protettore e c’era una festa di strada. Noi preferivamo sempre esibirci come parte di una celebrazione di strada, e per sopravvivere vendevamo cuchifritos, empanadas… tipiche della cucina portoricana. Si ballava e si beveva molto, e parte di questo era la rappresentazione teatrale, sempre all’interno di una fiesta.
Questo tipo di lavoro ha a che fare con i tuoi studi di antropologia?
Sì, con il mio percorso sulle tradizioni, sulle celebrazioni…
Tu lavori con 15, 20 e anche più persone. Come si fa a gestire gruppi così numerosi?
La differenza non sta nel numero, ma nell’intenzione: il lavoro di organizzazione o “disorganizzazione” è lo stesso. Si tratta di lavorare sull’unità di obiettivi di un organismo unicellulare che trova una finalità. Il problema è come trovare un’unità di obiettivo cui questo organismo tenda, non un’autorità che detti da fuori le regole e la direzione.
Un’autorità interna quindi…
Sì, l’autorità non può essere quella del regista, ma deve stare nella crescita dell’organismo in sé stesso. Una cosa è l’autoritarismo del regista, un’altra la crescita di un gruppo: la chiave sta nel mettersi in basso, non in cima. Se ti collochi al servizio dell’organismo e della sua crescita, puoi fare qualsiasi cosa; se invece ti collochi in cima è molto più difficile ed è una cosa completamente diversa.
Se parlo del Teatro de los Sentidos con chi non lo conosce, dei labirinti dove lo spettatore-visitatore entra e sperimenta queste sensazioni, e delle emozioni che suscita, in un primo momento pensano a percorsi mistici molto seriosi, con una certa solennità new age. Invece il segreto del loro successo è che si tratta di esperienze innanzitutto giocose e seduttive.
Sì, ludiche. Penso che la chiave stia nella leggerezza e soprattutto nel non prendersi troppo sul serio. Se ci credi molto, se prendi te stesso troppo ‘trascendentalmente’, allora sei perduto. C’è uno spirito molto colombiano in questi spettacoli: magia, gioco, sensualità, leggerezza ma anche mistero, inquietudine, familiarità con il tema della morte, però con uno spirito mai del tutto serio. Mi viene in mente un detto della Cabala: «Mentre gli uomini pensano, gli dei se la ridono».
Da ‘habitante’, dentro a un labirinto sai che il pubblico farà un certo percorso, uguale per tutti. Però ci sono dei falsi bivi, scelte che il ‘viaggiatore’ crede di prendere e su cui fino alla fine si interroga. E’ un’illusione, non sceglierà niente, l’unica scelta è quella di godersi il viaggio, di perdersi e lasciarsi condurre.
Si gioca a perdersi, perché l’unica forma di trovarsi è perdersi. Nel labirinto de “El Hilo de Ariadna” c’è la nascita, l’infanzia, la morte e poi la decompresion final [un locale accogliente dove lo spettatore può sedersi, riflettere sul percorso sorseggiando un tè e scrivere su appositi fogli le proprie impressioni, ndr].
Poi sono arrivate altre opere: “Oracoli”, la “Memoria del vino” seguito da “Fermentacion“, e “La Eco de la Sombra”, in cui il tema è sempre il perdersi. E dove si dice che l’unico modo per non autodistruggersi è ‘farsi amico’ ciò di cui più ci si vergogna.
La cosa che più ti fa vergognare può essere la tua migliore amica, questo è il cuore: «Como hacerte amigo de lo que le da màs verguenza». Se volti le spalle a ciò che più ti dà vergogna, questo ti distrugge.
“La Eco de la Sombra”, allestito dal 2005 al 2008 in Italia, Spagna, Belgio, Danimarca e Stati Uniti, è creato sul rapporto dello spettatore con la propria ombra e sul mistero del doppio.
Sì, si basa su un racconto un po’ autobiografico di Andersen, che era bisessuale e aveva molta paura sia degli uomini che delle donne, infatti morì vergine. In questo racconto narra che un giorno, in una città meridionale, forse Napoli, una prostituta chiamò un professore in strada ma lui ebbe paura e scappò. Cercò però un angolo da cui spiare la prostituta. Di fronte alla casa della prostituta c’era un piccolo hotel dove il professore decise di prendere una stanza. La notte la spiava mentre rientrava in camera con gli uomini. Immaginava che lì ci fosse «la sabidurìa» («la sapienza»), «el plazer y el descubrimiento» («il piacere e la scoperta»). Immaginava che il cielo dell’essere umano stesse in quel piacere.
Mentre guardava, la sua ombra si proiettava sulla parete di fronte avvicinandosi sempre più alla finestra. Ogni giorno la sua ombra era un po’ più vicina. Poi, un giorno, l’ombra entrò. Anzi, mezza ombra entrò. E si voltò verso il professore: «Vieni con me» gli disse a gesti. Ma il professore ebbe paura e non la seguì. «Bene – disse allora l’ombra – Pagherai le conseguenze di questo rifiuto».
Per vent’anni il professore, alter ego di Andersen, non rivide più l’ombra. Usciva solo di notte, di giorno se ne stava chiuso in casa: provava molta vergogna a non avere un’ombra, mentre di notte nessuno se ne accorgeva.
Un giorno, dopo vent’anni, l’ombra tornò. Il professore le disse: «Dove stavi? Ora torna con me!», ma l’ombra rispose: «No, questa volta sarai tu che verrai con me». Il professore rifiutò e l’ombra lo uccise.
Qui sul tavolo è aperto il testo di Alejandro Jodorowsky “La via dei tarocchi”. La prima volta che il Teatro de los Sentidos venne in Italia fu con “Oracoli“, che si basa proprio sui tarocchi…
Ho studiato per vent’anni i tarocchi. Lo spettacolo è un lavoro sull’archetipo, sulla relazione tra simbolo, mito e archetipo. L’archetipo è la sensazione che abbiamo nell’inconscio collettivo, ha a che fare con la percezione del nascere, del morire, dell’atto di correre, scappare, con la libertà e la perdita della libertà, l’unione con un altro essere umano e l’esperienza dell’abbandono.
Sono sensazioni archetipiche, che noi elaboriamo creando miti e leggende che stanno nell’inconscio collettivo, come la carta degli innamorati nei tarocchi o della forza o la carta del matto. A partire da questo possiamo stimolare la forza, le paure e i desideri dello spettatore mettendolo di fronte ai simboli dell’inconscio collettivo. Da qui deriva la mitologia e da questa il simbolo. A me interessa da sempre questa relazione: simbolo, mito, inconscio collettivo.