Arrivare alla ‘Casa delle Culture’ del Teatro Ridotto vuol dire affrontare un breve viaggio al confine tra la zona industrale ovest di Bologna e i piccoli centri urbani inglobati ormai dalla città espansa. La via Emilia corre al confine del prato che limita la piccola casa ricoperta dai murales di Tonino Guerra.
Fa una certa impressione cascare all’improvviso in questo luogo senza tempo, circondato da margherite di campo e abitato da gente che rimane (come viene ripetuto con orgoglio in uno dei volantini appoggiati sul tavolino all’ingresso) “rigorosamente estranea ai circuiti produttivi teatrali”.
Il programma della giornata prevede un incontro con Cora Herrendorf, Ana Wolf, Naira Gonzalez e Laura Mariani sul “teatro dell’esilio”.
Vera protagonista della giornata è Cora Herrendorf. Nata a Buenos Aires nel 1949, ha studiato sin da giovanissima musica, danza e teatro. Negli anni ’70 fonda con Horacio Czertok la Comuna Nucleo per poi, quattro anni più tardi, abbandonare definitivamente l’Argentina e stabilirsi in Italia, a Ferrara, dove il gruppo prenderà il nome odierno di Teatro Nucleo. Dal ‘74 si occupa dell’applicazione delle tecniche di ricerca teatrale alle terapie di recupero dei disabili psicofisici, studia psicodramma e lavora in svariate istituzioni psichiatriche e comunità per ex-tossicodipendenti in Argentina, Germania, Norvegia e Italia. Questa lunga ricerca applicata la porta a fondare, nel ’95 a Ferrara, il Centro per il Teatro nelle Terapie, dove si occupa prevalentemente della formazione di operatori sociosanitari.
Al termine della giornata, organizzata venerdì scorso dal Ridotto, ci sarà quello che viene definito “un dono da Naira”, ossia la dimostrazione di un estratto dall’ultimo spettacolo di Naira Gonzalez, attrice e autrice anche lei argentina di nascita ma italiana d’adozione. Infine l’ultima replica assoluta dello spettacolo della Herrendorf “Exilio”. Insomma una giornata ricca e potenzialmente intensa.
La sottoscritta non è mai stata al Teatro Ridotto e all’inizio mi muove con un po’ d’imbarazzo, dettato dall’atmosfera intima e al tempo stesso escludente che si respira. Conosco questa sensazione: è la stessa che ho provato ogni volta che sono entrata in contatto con realtà teatrali fondate su esperienze di vita comunitaria e di forte condivisione politica, all’interno delle quali ho sempre sentito, appunto, da un lato la forte intimità, l’intensa forza del sogno condiviso, dall’altra una certa tendenza a chiudersi a riccio escludendo tutto ciò che non corrisponde alla propria struttura e al proprio modo di intendere la vita e il teatro.
Così mi siedo timidamente nel foyer cercando di individuare tra i (pochi) presenti Lina Della Rocca e Renzo Filippetti, coloro che hanno fondato questo luogo e che, da moltissimi anni, resistono strenuamente cercando di far sopravvivere quest’isola teatrale all’interno della quale maestri e amici sono Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba. E bisogna dar atto che, a prescindere dal fatto che il teatro d’impronta barbiana o grotowskiana (qualcuno dice addirittura “neogrotowskiano”, quasi si trattasse di una corrente filosofica, e forse quest’impressione non è poi lontanta dalla realtà) possa piacere o no, a prescindere dal gusto personale e dalle tendenze teatrali degli ultimi anni, quest’uomo e questa donna davvero portano avanti un esperimento di resistenza attiva.
Hanno incontrato un certo tipo di teatro, hanno capito che era quello in cui credevano e per tutta la vita si sono impegnati per creare e difendere un piccolo portofranco, un baluardo all’interno del quale quel teatro potesse trovare la sua misura e sopravvivere. E sicuramente ha giocato a loro favore il vivere proprio a Bologna, città che si è distinta sempre per la sua apertura alle sperimentazioni teatrali e per la sua accoglienza, sebbene in questi ultimi tempi la vita si sia fatta più dura per tutte le realtà teatrali del territorio. Viene insomma da domandarsi se il Teatro Ridotto avrebbe mai potuto godere di una vita così lunga in posti come Campobasso, o Isernia, o Foggia.
Senza mettere in dubbio la fatica nel portare avanti un progetto coerente e spesso scomodo, bisogna ammettere che il Teatro Ridotto, dopo tanti anni e tante difficoltà, esiste e resiste.
E questa riflessione introduce quella nata dall’ascolto di attrici che raccontano le loro storie di esuli, di creatrici di comuni, di abitatrici di ex manicomi: ecco una generazione che ha strenuamente lottato per cambiare il teatro, per creare un nuovo teatro, un teatro che portasse avanti istanze sociali e politiche davvero rivoluzionarie. Sono davanti a una generazione che, per questo motivo, ha combattuto con tutte le sue armi ed è riuscita a vincere moltissime delle sue battaglie. Il fatto stesso che il seminario di oggi esista lo dimostra. Inevitabile, quindi, un paragone con la mia generazione, frammentaria e a volte confusa, forse, nella lotta, che cerca troppo timidamente di imporsi e di imporre le sue istanze. Tanto che comincio, senza nemmeno rendermene conto, a canticchiare il motivetto di “La mia generazione ha perso” di Gaber.
Quanto visto al Teatro Ridotto è un’esperienza quasi più antropologica che teatrale, e se è vero che le performance cui ho assistito non corrispondevano al mio gusto, è pur vero che, d’altra parte, mi sento fortunata ad aver partecipato a un incontro tra pezzi importanti della storia teatrale contemporanea.
Tre donne (sembro essere l’unica a notare l’assenza di Laura Mariani, docente di Storia del teatro e di Drammaturgia, di cui nessuno spiega l’assenza), tre artiste che si muovono nel mondo del teatro seguendo percorsi diversi ma con molti punti di contatto: i maestri di riferimento, la provenienza dallo stesso paese (l’Argentina) e l’esilio, forzato o volontario, politico o artistico da questo paese. Nei racconti le storie si mescolano, i ricordi riaffiorano e per gli ascoltatori la rievocazione dell’Argentina pre-dittatoriale crea inquietanti analogie con l’Italia di oggi. La stessa Cora Herrendorf spinge più volte su questo tasto riportando dati, episodi, sensazioni. Una per tutte: la paura di dire apertamente ciò che si pensa.
L’incontro pomeridiano è a tratti così intenso che dispiace, poi, non riuscire a ritrovare la stessa energia nelle performance. Il problema è forse (e non vorrei apparire troppo brutale nel dirlo), che non basta essere figli di desaparecidos, non basta avere un fratello o un compagno torturati per riuscire a fare un buono spettacolo. Forse dobbiamo chiederci se non sia terminato il periodo storico in cui la messinscena era un diritto e il messaggio in sé giustificava anche la rudezza o la scarsa proprietà dei codici. Probabilmente, al di fuori di realtà come il Teatro Ridotto, questi lavori non troverebbero grande favore di pubblico, forse proprio perchè il “rimanere estranei ai meccanismi produttivi” allontana anche da quella componente fondamentale del teatro che è il pubblico. Un pubblico che cambia, e pretende di non assistere alle stesse cose cui avrebbe assistito negli anni Settanta.
Ma per fortuna questa problematica non riesce a scavalcare le mura del Teatro Ridotto di oggi, e gli eventi si susseguono esattamente come avrebbero fatto dieci, venti o trent’anni fa.
Alla fine dello spettacolo della Herrendorf segue un abbraccio commovente con Lina Della Rocca.
Loro resistono, continuano a resistere, e forse ciò che definiscono un “esilio artistico” è l’unico modo per portare avanti la loro personale esperienza artistica senza essere contaminate, “corrotte”.