Teatro sociale d’arte: che c’è da guardare?

Canto d'amore alla follia (photo: Paolo Cortesi)|Ubu roi (photo: Simone Cecchetti)|Ubu Re (photo: Simona Fossi)
Canto d'amore alla follia (photo: Paolo Cortesi)|Ubu roi (photo: Simone Cecchetti)|Ubu Re (photo: Simona Fossi)

E’ da poco uscito per Cue Press un bel volumetto firmato da Andrea Porcheddu su come guardare uno dei tanti spettacoli di teatro sociale di cui il nostro Paese è disseminato: “Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte”.

“Esiste, di fatto, un fermento: come se da un tessuto magmatico, ampio e diversificato, cominciano a emergere vette, momenti, picchi. È del “teatro sociale” che parliamo, etichetta che sembra non più sufficiente a comprendere le diverse anime di questo fermento – afferma Porcheddu – Abbiamo provato a suggerire un suffisso, una specifica: teatro sociale d’arte, dal momento che esistono opere – e molte ne vediamo – che emergono da quei contesti di disagio, di difficoltà, di marginalità (economica, sociale, culturale) eppure sembrano sempre più conquistare il centro della scena, ossia porsi come veri e propri momenti d’arte”.

“Come guardare a questi spettacoli? Quanto e come la “differenza” è entrata a modificare gli stilemi stessi della creazione teatrale? – si domanda Porcheddu – Oggi più che mai la sfida, anche per la critica teatrale, è di dotarsi di strumenti, codici, sgaurdi diversi per la diversità. Non è un gioco di parole. Il teatro e la danza si rivelano terreni fertili per ipotizzare forme creative che non escludono la socializzazione, l’inclusione, l’incontro, così come la riabilitazione o il recupero, ma che si spingono verso esiti scenici, ossia prodotti, di altissima fattura. Lo sguardo critico, e dunque quello del pubblico, non può non tenere conto di quanto, nel teatro sociale d’arte, siano cambiate la pratica registica, quella attorale, quella drammaturgica. In questo senso, credo sia importante continuare a interrogare la scena, gli artisti che la abitano, perché il teatro è specchio di una società che cambia, che vorremmo – che vogliamo – inclusiva e non esclusiva, aperta e non chiusa. Creare ponti e non alzare muri: anche in questo il teatro sociale d’arte svela la rinnovata forza della pratica scenica. Un teatro in cui anche la parola “catarsi” può assumere nuovi e più urgenti significati. Non solo superare le passioni tramite la loro rappresentazione, ma anche e soprattutto superare questo modello inefficace e ormai insopportabile di società per pensarne, immaginarne, un’altra, nuova e diversa. Guardare il teatro sociale d’arte significa fare i conti con l’utopia di un futuro possibile”.

Tre spettacoli visti di recente, pur attraversando ambiti assai diversi fra loro, possono essere incanalati in questa direzione: “Il ballo” dell’Accademia Arte della Diversità-Teatro la Ribalta, “Canto d’amore alla follia”, scritto da Alessandro Garzella per Animali Celesti, e “Ubu Re”, diretto da Stefano Tè del Teatro dei Venti per il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna.

“Il ballo” può essere considerato il manifesto poetico dell’Accademia Arte della Diversità-Teatro la Ribalta, indagando, come fa, sul senso della sua appartenenza: l’appartenenza ad un teatro che mette in scena uomini e donne, con e senza disabilità, che non dissimulano affatto la loro condizione, ma anzi, su di essa, fondano la propria essenza artistica.
Lo spettacolo coinvolge sulla scena, per la prima volta, la quasi totalità dei suoi attori e attrici e i tanti artisti esterni (tra cui Michele Fiocchi e Vasco Mirandola), che hanno collaborato con la compagnia per altri spettacoli, come lo struggente e magnifico “Il suono della caduta”.

“Il ballo” è uno spettacolo di teatro-danza in cui tutti i personaggi che invadono la scena risultano prigionieri in una stanza, prigionieri dei gesti e delle posture, ma anche delle proprie abitudini, che ripetono maniacalmente in uno spazio fisico e mentale che gli “altri” gli rimandano. Lottano per non soccombere alle regole e alle logiche a loro imposte, cercano una via di fuga, un modo per ritrovare qualche finestra che sembra a volte esserci, ma che poi non c’è. Qualcuno tenta di ribellarsi, ma viene subito ricacciato nel vortice di uno sguardo prestabilito che solo il teatro può in qualche modo rendere nobile e meraviglioso.
Mescolati a testi di Pirandello, J.P. Sartre e Bruno Schulz, lo spettacolo si riverbera su “Il tango” video cult del 1980 di Zbigniew Rybszynski.

Ecco poi “Canto d’amore alla follia” di Alessandro Garzella, in scena Francesca Mainetti e lo stesso Garzella, che dopo aver diretto per tanti anni La Città del Teatro a Cascina, ha fondato Animali celesti/teatro d’arte civile, un’associazione culturale e di promozione sociale composta da artisti, educatori, utenti psichiatrici e semplici cittadini interessati ai valori e alle forme della diversità, diventando una delle compagnie teatrali d’interesse nazionale nell’ambito dell’inclusione sociale, condividendo anche una residenza artistica che ha dato vita al Teatro Stalla, una struttura esclusiva che consente lo sviluppo di una ricerca che coinvolge professionisti, utenti psichiatrici, educatori e svariate razze di animali che la comunità utilizza nella riabilitazione.

In scena nello spettacolo due figure, una coppia paradossale, di cui non si conosce niente; l’uomo è in carrozzella ma lo vediamo soprattutto per terra che striscia, paraplegico, storpio, bisognoso di tenerezze; lei arriva da fuori, dalla vita comune, forse è la sua badante, la sua infermiera, ma potrebbe anche essere la sua puttana. Due figure perseguitate da continui turbamenti e scarti d’u/a/more. Sono corpi che rilanciano in un flusso continuo di parole una poesia violenta e sublime che tratta di desiderio per sentimenti che gli altri ritengono per loro preclusi, impossibili, e che Garzella ha raccolto dai racconti delle persone con cui è venuto in contatto nel suo percorso di formatore, rileggendole poeticamente e potremmo ben dire politicamente.
Parole dunque che rimandano ad un mondo folle che li ha voluti emarginare, essi stessi nel contempo folli ed emarginati che portano in scena la loro ostentata diversità attraverso invocazioni, ricordi, frammenti, sogni che esprimono senza pietismo sentimenti di perdita e di bisogno, così naturalmente, gridandoli, ma anche sussurrandoli.
Ne viene fuori un teatro che “bisognerebbe difenderlo con le armi” perché è necessario, questo sì, più di ogni altro.

Ubu Re (photo: Simona Fossi)
Ubu Re (photo: Simona Fossi)

Al Teatro dei Segni di Modena abbiamo invece assistito ad un altro modo di proporre teatro, questa volta con i carcerati con l’“Ubu Re”, nuova tappa della ricerca artistica in carcere del Teatro dei Venti.
Lo spettacolo vede in scena gli attori detenuti e internati del Carcere di Modena e di Castelfranco Emilia, insieme ad alcuni attori della compagnia modenese: Oksana Casolari, Francesca Figini, Davide Filippi e Antonio Santangelo, con la regia e drammaturgia di Stefano Tè per un progetto realizzato nell’ambito di Stanze di Teatro in Carcere 2017.
Nel biennio 2016-2018 le realtà che compongono il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, dopo “La Gerusalemme liberata”, hanno scelto di lavorare su un classico del teatro moderno, quell’Ubu Re, scritto e rappresentato da Alfred Jarry, testo che in qualche modo segna la nascita del teatro contemporaneo, rileggendo in tal senso il “Macbeth” di Shakespeare.
Ma non troviamo niente di beffardo in questa versione del testo di Jarry: ogni gesto, ogni parola è oppressa e opprimente, rappresentata vicino agli spettatori, posizionati ai lati di un sottile palcoscenico.
Padre Ubu uccide il Re Venceslao, spodesta la Regina Rosmunda e conquista il trono polacco, uccidendo poi sistematicamente nobili, magistrati, finanzieri, contadini; e insieme a Madre Ubu, omologa di Lady Macbeth, costruisce un mondo senza luce e speranza dove è solo l’istinto che vince.
Stefano Tè costruisce un mondo in cui, tra buio e luce, si fanno presenti soprattutto i corpi degli attori che parlano più delle parole, attori tutti ammirevoli, in cui il teatro si fa carne e vita al di là di ogni loro provenienza ed essenza.

Ecco così che in tutti e tre gli spettacoli, in queste esperienze di sguardo, è sempre il teatro a vincere, a ricordarci come esso sia fondamento etico sia per l’attore che per lo spettatore, qualunque essi siano.

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