Teatro in streaming, linguaggio e comunità: conversazione con Davide Carnevali

Davide Carnevali (photo: Pino Montisci)
Davide Carnevali (photo: Pino Montisci)

Iniziamo oggi una sorta di nuova rubrica, realizzata attraverso una serie di conversazioni con personaggi del mondo del teatro contemporaneo, sul tempo sospeso che stiamo soffrendo in questo momento di grande emergenza sanitaria, che ci costringe tutti a rinchiuderci in casa, mentre fuori migliaia di morti e una grave crisi economica annientano il Paese, e in particolar modo il settore culturale, in una situazione unica nel suo genere negli anni che stiamo vivendo.

Partiamo con un’intervista al drammaturgo Davide Carnevali, classe 1981, la cui attività inizia nel 2003 grazie a Laura Curino e Gabriele Vacis, con cui lavora come assistente drammaturgo al monologo “Il conte Aigor”, inserito all’interno della trasmissione televisiva Report.
Dopo alcune messe in scena nel circuito teatrale alternativo milanese all’inizio degli anni Duemila, il riconoscimento internazionale arriva con “Variazioni sul modello di Kraepelin”, con cui nel 2009 è premiato al Premio Riccione e al Theatertreffen di Berlino.
Nel 2011 debutta “Sweet Home Europa” al Schauspielhaus di Bochum e in forma di radiodramma per la Deutschlandradio Kultur; seguiranno altri quattro allestimenti, sempre in Germania. La prima rappresentazione italiana è prodotta dal Teatro di Roma nel 2015.
Nel 2013 Carnevali vince il Premio Riccione per il Teatro con “Ritratto di donna araba che guarda il mare”.
Le sue opere, presentate in diversi festival internazionali, sono tradotte in molte lingue.

Davide, come stai passando il tuo tempo sospeso?
Leggendo, cucinando, scrivendo. In generale, la routine quotidiana di questo periodo non differisce di molto da quella del mio mese di aprile standard, che di solito è dedicato a questo. Il che non significa che io non soffra terribilmente la mancanza di libertà. Sono abituato a viaggiare e le restrizioni agli spostamenti mi fanno male.

Raccontaci tre cose che stai facendo e che consiglieresti di fare.
Leggere i libri che non si ha avuto il tempo di leggere, scrivere le cose che non si ha avuto il tempo di scrivere, pensare le cose che non si ha avuto il coraggio di pensare.

Ancora: tre libri, tre film, tre brani che suggeriresti per questo tempo di confinamento.
Buoni libri di storia. Studiare il passato ti dà una prospettiva interessante per comprendere molto di quello che sta succedendo oggi. E lo stesso vale per i film: dei buoni documentari. Di Arté, RaiStoria o BBC. Rispetto alle musiche non saprei. Qualcosa che vi faccia sentire allegri senza esserlo.

Per fronteggiare il periodo, il teatro si è spostato in streaming. Come giudichi un tuo testo visto in questa forma?
Male. Secondo me gli unici che pensano che il teatro in streaming sia interessante sono i teatranti, non certo la gente “normale”, che non credo senta alcuna mancanza del teatro, in tempi come questi. E comunque il teatro non può essere un concorrente di serie e film. Se cerca di esserlo, ha perso in partenza.

Dicci tre parole che avranno meno significato, tre che muteranno di significato e tre che avranno più significato.
Parole come “emergenza”, “necessità”, “libertà”, per fare solo tre esempi, hanno perso da tempo il loro valore. L’emergenza umanitaria e quella climatica non sono forse peggiori di questa? E una libertà che stiamo imparando (da decenni) a vedere limitata in modo semplice, rapido e senza alcun dibattito è ancora libertà?
Adesso si parla dell’utilizzo dei Big data, ad esempio. È evidente che da un lato permetteranno un’interazione più rapida e semplice tra utenti e istituzioni, permettendo, se ci atteniamo a una situazione simile a quella che stiamo vivendo, di individuare istantaneamente la posizione di un malato e quella delle persone con cui è venuto in contatto nelle ultime ore. Allo stesso tempo, la tracciabilità completa dell’individuo, dei suoi spostamenti e dei suoi contatti umani è qualcosa di mostruoso. Il problema è che sembra mostruoso a me, ora; probabilmente non sembrerà così mostruoso a una persona nata in questi ultimi 5-10 anni e cresciuta con in mano uno smartphone.
Lo spostamento della percezione di cosa sia assumibile per la nostra coscienza di esseri umani e cosa non lo sia è il punto nodale della questione. Quello che sta accadendo oggi è un “precedente”. Nel giro di breve tempo questa situazione sarà stata integrata nella nostra maniera di vedere le cose, e la rinuncia alla libertà personale sarà vista come una “possibilità”, non come una mostruosità.
Quello che si sta facendo oggi per risolvere il problema è davvero “necessario”? O è necessario solo perché la nostra sanità pubblica è un disastro, e la nostra coscienza pubblica ancora peggio?
Non dimentichiamoci che il confinamento della popolazione è una misura che l’Italia ha adottato, presa dal panico e con l’urgenza di reagire nel più breve tempo possibile, sull’esempio di quella adottata dalla Cina. E la Cina è un regime in cui la libertà personale dell’individuo non è in discussione, perché non c’è, non esiste. Noi abbiamo imitato quel modello senza pensarci due volte. E poi, dato che l’Italia ha preso queste misure, gli altri Paesi hanno fatto lo stesso. Tutti dicono che era “necessario”, che era l’unica maniera di agire. Non c’è mai stata discussione, dibattito. Questo è terribile. Anche se fosse veramente la migliore opzione da prendere, adottare queste misure senza sottoporle a un minimo di dibattito è una sconfitta disastrosa della politica.
Poi vediamo che in Germania o in Svezia, per esempio, le cose si stanno facendo in modo differente. È vero che in Svezia molte persone vivono sole… Ma in Germania no. Il fatto è che sono Paesi in cui la società rispetta tradizionalmente la libertà personale dell’individuo, che ha un valore enorme. Per noi, lo è meno. Se tutto quello che sta accadendo ci sembra “normale”, è anche perché abbiamo svalutato completamente il valore di certe parole a partire dall’uso indecente che ne facciamo nella vita quotidiana.
Non so in Italia, ma qui in Spagna si parla costantemente di “guerra”, “nemico”, “sconfitta”… Il vocabolario militare è tornato pericolosamente di moda. Non che sia la prima volta. E non che i militari siano di per sé cattive persone. Ma è il modo di vedere la vita come un campo di battaglia, che è profondamente sbagliato. D’altra parte, spero che espressioni come “operatore sanitario”, “collaboratore familiare” o “cassiere del supermercato” vengano viste sotto una nuova luce, e che si rivaluti la loro importanza all’interno del nostro sistema di convivenza. L’uso che facciamo del linguaggio è fondamentale, determina il nostro modo di vivere molto più di quanto non crediamo.

Ci sono aspetti positivi, secondo te, che potremmo imparare da questa situazione?
Se ci facciamo su una riflessione sensata, forse potremmo riscoprire che il teatro ha delle responsabilità (e delle potenzialità) enormi, rispetto al modo in cui viviamo e vediamo la realtà.
Ciò di cui sentiamo la mancanza ora è l’esperienza fisica di una condivisione, che in fondo è la natura intima del teatro. In questo momento stiamo patendo una limitazione tremenda alla nostra possibilità di vivere esperienze, con una conseguente riduzione paurosa del concetto di “esperienza” unicamente a ciò che possiamo fare in solitaria e in autonomia. L’illusione di essere autonomi esercita su di noi una grande attrazione, proprio perché la associamo a una falsa idea di libertà; eppure è un miraggio pericoloso, perché la verità è che soli siamo più deboli.
Quel che sta accadendo oggi, da un certo punto di vista, è che stiamo semplicemente portando all’estremo un processo di atomizzazione, verso cui questa società ci fa tendere da tempo. L’idea stessa di “comunità” è in pericolo; il fatto che l’Unione Europea sia un disastro, da cosa pensiamo che dipenda…?! A nessuno interessano davvero le comunità. Ognuno è abituato, troppo abituato, a pensare per sé. Ci hanno insegnato che è più facile. Il concetto di “comunità”, d’altra parte, è uno di quelli che più ha cambiato il suo valore, negli ultimi anni. Si parla di “comunità virtuale”, per esempio; ma cosa c’è di “comunitario” nel sostituire un’esperienza vissuta nel qui e ora, con un’esperienza surrogata che ha a che vedere più con l’assenza, che con la presenza? Si tratta semplicemente di una simulazione, o meglio di un simulacro, di comunità.
È anche in questo senso, che indagare il linguaggio può servire a indagare la nostra percezione del reale. Basta pensare all’uso che si sta facendo della retorica, con i suoi slogan, che è pericolosissimo. Per esempio, questa cosa del “tutto andrà bene”. Non è vero che “tutto andrà bene”! È una stronzata monumentale. È una frase fatta, che ripetiamo per darci animo – e in questo rivela già la sua funzione di “mascheramento del reale”, perché se ci ripetiamo ossessivamente questa frase è proprio perché sappiamo che invece le cose andranno male. È una frase completamente vuotata di significato.
Dobbiamo fare molta attenzione, perché una frase come questa incita alla sospensione del giudizio e della riflessione. Cosa vuol dire che tutto andrà bene? Pensiamoci un attimo. Migliaia di morti sono un “andare bene”? La limitazione delle libertà personali è un “andare bene”? La pulizia socio-economica che questo virus sta facendo, eliminando gli strati economicamente più deboli (anziani, malati e poveri) della popolazione è un “andare bene”? L’accentuamento del divario economico tra ricchi, che sono sempre più ricchi, e una finta piccolo-borghesia che si sta impoverendo è un “andare bene”? Perché è questa la strada che abbiamo preso, e a me non sembra tanto “bene”.
Allo stesso modo, non è vero che “niente sarà più come prima”. Anche questo è uno slogan, che non trova alcun fondamento in una riflessione. Tutto sarà esattamente come prima, solo che sta avvenendo un’accelerazione imprevista verso l’obiettivo a cui questo sistema sociale ed economico tende. Stavamo già andando in questa direzione, anche prima del virus; e ora ci andiamo più rapidamente. Non c’è spazio per individui che vivono ai margini della soglia della sussistenza economica, in questo mondo. Siamo troppi. Viviamo già in un sistema basato sul conflitto e la competizione, che pone l’individuo contro l’individuo e non invita alla socializzazione. Le nostre attività si atomizzeranno, si individualizzeranno ancora di più.
Il fallimento della sanità pubblica porterà a un ripensamento ancora più radicale del sistema sanitario su base privata. Tutti cercheremo di essere ancora un po’ più ricchi, di migliorare ancora un po’ la nostra condizione. Questo non può avvenire che a spese del nostro prossimo. Tutto questo stava già avvenendo prima di questa crisi, e questa fase critica darà una nuova spinta in questa direzione.
So che tutto questo verrà immediatamente bollato come “teoria pessimista” o “cospirazionista” o “intellettualista” o stronzate di questo tipo. Anche se io non credo minimamente che ci siano grandi corporazioni o uomini malvagi che governino le sorti del mondo dall’oscurità. Credo semplicemente che ogni sistema ha in sé delle regole di autosostentamento e autogiustificazione, e il nostro sistema economico, che alcuni chiamano “capitalista”, è tale da migliaia di anni. Migliaia. E con il tempo ha sperimentato un’evoluzione, e un’accelerazione.
“Capitalismo” è semplicemente il nome che questo processo ha assunto in una determinata tappa della storia umana. Il problema è che oggi includere certi termini nel discorso finisce per mettere il discorso stesso in cattiva luce; perché questi termini sono entrati nel linguaggio comune svuotati del loro significato e della loro pregnanza, sono stigmatizzati o è stigmatizzato il loro utilizzo, che è assorbito dalla retorica. Per questo, termini come “capitalismo” o “sistema” suonano come “vecchi”, desueti e stupidi. E il fatto di fermarsi a riflettere, anche.
Uno dei fenomeni a cui si è assistito negli ultimi decenni è stato la stigmatizzazione dell’intellettuale. Come se fosse uno stronzo venuto a dirti come fare le cose perché si crede migliore di te. Quando semplicemente è una persona che impiega il suo tempo per pensare, allo stesso modo in cui un manager lo impiega per dirigere un’azienda e un netturbino per spazzare la strada. Ognuna di queste funzioni è essenziale perché la nostra società funzioni. Essenziale, ognuna allo stesso modo. Ma non viene percepita come tale, perché c’è il linguaggio di mezzo. Il linguaggio può rendere una cosa attraente o non desiderabile, positiva o negativa, fica o loser.
La perdita di valore del linguaggio va accompagnata da una perdita di valore della riflessione. Se il teatro è capace di mettere l’accento su questi problemi potrebbe avere molto da insegnare, in tempi come questi. E ne avrebbe la possibilità, proprio perché il teatro è quell’incontro / scontro continuo tra il linguaggio e la manifestazione fisica di qualcosa davanti allo spettatore. Per questo, oggi, quell’idea di teatro ci manca così tanto.

Prova a scrivere un racconto di poche righe che potrebbe contenere suggestioni per come ricostruire in modo migliore il mondo che abbiamo lasciato alle spalle.
Il ciclo di vita delle farfalle dura, in media, un mese.
Oggi ci sono in giro farfalle che vivranno la loro intera vita in un mondo vuoto di esseri umani.
La vita di queste farfalle è una meravigliosa parentesi nella storia del mondo.

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