Il Teatro Sociale diretto da Gianfranco Helbing ha presentato la sesta edizione del festival. Tra gli ospiti Compagnia Fluctus, Opera Retablo, Ledwina Costantini e molti altri…
Pur vivendoci nei pressi, dobbiamo dire che conosciamo poco la scena ticinese, che abbiamo frequentato solo sporadicamente. Per questo motivo siamo andati a Bellinzona con grande curiosità, per scoprire il Territori Festival organizzato dal Teatro Sociale diretto da Gianfranco Helbing, in collaborazione con Zona’B, una nuova piattaforma artistica creata da Raissa Avilés e Margherita Saltamacchia.
In occasione della sua sesta edizione, la prima dopo la pandemia, Territori ha voluto dedicarsi proprio alle compagnie del ticinese. Così, dall’8 al 12 marzo, più che un festival la manifestazione è stata l’occasione per toccare con mano l’estrema diversità del teatro in Ticino, che si è manifestata per mezzo di spettacoli e performance che hanno toccato tutte le varie possibili sfaccettature con cui si esprime la teatralità.
Kevin Blaser e Faustino Blankut, della Compagnia Fluctus, in “I’m not a Hero”, con la regia di Antoine Zivelonghi indagano per esempio, attraverso vari linguaggi, l’atteggiamento ondivago, e tutto umano, che ognuno di noi ha con l’altro. Il semplice racconto di un incontro casuale, narrato dai due artisti in modo diverso, diventa il paradigma per approfondire l’animo umano e le sue contraddizioni.
Con l’intreccio significante dei loro corpi, posti in relazione con il pubblico che li circonda e con cui condividono questa esperienza, l’evolversi dell’incontro ci mostra gli atteggiamenti che si nascondono spesso sotto una benevolenza di maniera, dove risposte accomodanti celano a volte opposti sentimenti di fastidio.
Mentre raccontano i corpi, i due performer si aiutano vicendevolmente ad attraversare la scena, servendosi anche del pubblico, per cercare di comunicare un senso di speranza, perché solo il solidale rapporto con chi ci circonda può sconfiggerne l’indifferenza.
Alla fine, seppur ancora in forma di studio, “I’m not a Hero” si configura come un eccellente dispositivo scenico in cui corpo, pubblico e parola partecipano ad un rito collettivo in cui riconoscere i propri pregi e i propri difetti.
“Frankenstein, autoritratto d’autrice” di Margherita Saltamacchia è invece una sapiente lettura scenica con musica. Partendo dai testi di Mary Shelley, famosa per aver composto a diciannove anni “Frankenstein”, il libro che l’ha resa un’icona del romanzo gotico, l’attrice compone una specie di identificazione tra la scrittrice e la sua creatura.
La lettura scenica segue passo passo, con forte espressività, la creazione del romanzo da parte della Shelley, collegandola con l’evolversi della storia, sino alla richiesta inevasa della creatura di avere una compagna. In tutto ciò la musica creata dal vivo da Cristian Zatta accompagna in modo sempre partecipe la vicenda.
Margherita Saltamacchia, con indubbia capacità interpretativa, riesce a modulare, cambiando il registro della voce, i pensieri della Shelley con la narrazione del dottor Frankenstein e la disperazione concitata della sua creatura. In questo modo i temi della creazione e della im/possibilità di sconfiggere la morte scaturiscono in modo diretto sino alla identificazione finale, in cui emerge tra le nebbie del palco la figura della Shelley, dolorosamente impossibilitata a dare vita al cadavere della figlia appena morta.
La forma del concerto vocale, a Territori, è stato degnamente rappresentata da “Maybe a concert”, in cui la splendida voce di Raissa Avilés, accompagnata degnamente da Rocco Shira e Alix Logiaco, ci ha condotto in tre lingue (italiano, spagnolo e inglese) in diversi “territori” dell’anima. Attraverso canzoni famosissime come “Bang Bang” di Sonny Bono, che ci ha fatto ritornare indietro nel tempo, e la seducente “Paloma negra” di Tomas Méndez, l’artista di origine messicana ci regala motivi scritti da lei che, inframmezzati da parole significanti, compongono una sorta di “Diario dell’Anima” raccontandoci la sua infanzia, le sue paure, le sue speranze.
Non poteva mancare al festival anche un’opera di stampo prettamente performativo. A pensarci Ledwina Costantini con “Requiem for a Dream”, un lavoro che si interroga sul ruolo dell’artista, in una società che ha svilito l’atto artistico anche per colpa dell’artista stesso.
Lo spettatore si muove in uno spazio neutro, da cui emerge un tappeto di maschere di gesso in cui vivono tre presenze: Raissa Avilés, Ledwina Costantini e Piera Gianotti.
Tra riferimenti all’Angelo della Storia di Benjamin e ai Carmina Burana, gli spettatori sono invitati a far uscire dalla sua tomba di sassi l’autrice della performance, che si autoflagella non potendo che lasciare flebili segni della sua arte, mentre le maschere vengono distrutte una ad una.
L’ultimo spettacolo che abbiamo visto ci conduce invece all’opposto, verso un teatro di stampo tradizionale, complice il mendace linguaggio televisivo: “Siamo quelli giusti!” di Lalitha Del Parente, artista originaria di Bangalore, è diretto da Caterina Filograno, che pone al centro del discorso il tema dell’adozione.
Per farlo propone un vero e proprio talent show che ha come premio l’adozione di Masho, una bimba bianca venuta da lontano. Alla “gara” partecipano tipologie diverse di famiglie che intendono adottarla, tutte interpretate da attori di pelle nera. Il mattatore del gioco è un vero re della televisione, Livio Beshir, che prendendo in giro sé stesso conduce con ironia il tutto, evidenziandone le disarmonie.
I capovolgimenti della storia (bianco/nero), il silenzio assordante della bambina, il desiderio reale delle coppie, che si scontra con i pregiudizi e con le loro reali difficoltà, rendono lo spettacolo oggettivamente interessante verso il tema proposto, anche se il contesto della falsità del talent show a volte risulta dominante (forse volutamente) ponendo il tema dell’adozione dolorosamente in secondo piano.
In streaming abbiamo potuto seguire anche “Kokoschka”, della compagnia Opera Retablo, spettacolo che prende spunto dalla storia di passione e ossessione che l’artista Oskar Kokoschka ebbe con la compositrice Alma Mahler, che lo spinse a farsi costruire una bambola a sua somiglianza. Ed è la presenza conturbante in primo piano della bambola che, creata, manipolata, smembrata, ci conduce verso il tema non più procastrinabile della violenza sulle donne, che la performance suggerisce in modo stimolante e inconsueto.
Tra le forti suggestioni che ci riportiamo dal festival rimangono in mente anche quelle legate alle parole di Fabiano Alborghetti lette da Massimiliano Zampetti, che parlano di alberi e morte, la passione di Damian Hitz per il teatro svizzero, di cui raccoglie le immagini nel suo Teatromobile, la danza di Bianca Berger e Larissa Lischetti tra le case di Bellinzona accompagnata dalla musica di Stefano Marinucci. E, ancora, la vitalità dei ragazzi di Luminanza, il laboratorio per la drammaturgia contemporanea svizzera di lingua italiana.
Insomma, i nostri tre giorni a Bellinzona si sono dimostrati pieni di esperienze che ci hanno allargato il cuore e la mente.