Prima retrospettiva italiana per l’artista Marina Abramović a Palazzo Strozzi, che ospita (fino al 20 gennaio) per la prima volta il lavoro di una donna. Il curatore, Arturo Galansino, spiega ai giornalisti il senso del titolo, The Cleaner, riferimento alla pulizia che caratterizza il pensiero della Abramović: togliere il superfluo e tenere solo ciò che serve. “Fai pulizia del passato, della memoria, del destino”.
Questa occasione unica a Firenze pone molte questioni: dal pulire al ripartire. Come riordinare le idee e le relative priorità. Come sgombrare la mente dal conosciuto e aprirsi a nuove esperienze e domande.
In oltre cento opere esposte possiamo interrogarci sui perché. Perché ci sono voluti decenni per accettare la performance tra le arti riconosciute “a palazzo”? Che senso ha la re-performance, inventata proprio dall’Abramović? È possibile riproporre azioni del passato di una performer eseguite da attori oggi?
A tal proposito colpisce come, alla presentazione, sia calato il silenzio da parte della stampa riguardo le polemiche emerse nelle settimane scorse circa il compenso e il riconoscimento del lavoro per la re-performance dei giovani attori selezionati. Ma la stessa artista prende il microfono e si lamenta che nessuno in sala le abbia fatto una domanda relativa alla censura del manifesto realizzato per la 50^ edizione della “Barcolana” a opera del vicesindaco leghista di Trieste.
Molte sono state invece le domande sulla questione di genere, questione visibilmente risolta dai posti riservati: Marina sul palco, centro dell’azione, Ulay, parte integrante delle opere in mostra, seduto in prima fila e sempre silente. In un’altra fila l’attuale compagno dell’artista serba.
Il ruolo di potere femminile detenuto da Marina Abramović non esiste di per sé ma sembra definito dalla contrapposizione dei due uomini seduti tra il pubblico. Abramović insiste sulla forza delle donne, non tanto per un proclama personale, ma quasi perché la platea se lo aspetta, e infatti conclude: “Non c’è arte maschile o femminile. C’è solo buona o cattiva arte”.
Al di là della questione di genere, Marina Abramović ha sempre messo il proprio corpo a disposizione dell’arte rendendolo oggetto e soggetto. E questo dovrebbe essere il punto di partenza della mostra a Palazzo Strozzi.
Invece il primo impatto è un’esperienza straniante. Principalmente perché ci sono attori che recitano le performance di Abramović restituendo soltanto un gesto vuoto, una spettacolarizzazione dell’azione che perde il senso originale, del qui e ora. E ancora ci interroghiamo sulle scelte delle performance mimate. Perché proprio quelle? Qual è stato il limite della disponibilità degli attori nel concedersi al ricreare certe performance?
Secondariamente, nell’interazione con i cimeli proposta dall’allestimento c’è il rischio che questa spettacolarizzazione, che in superficie chiede allo spettatore di mettersi in gioco, non permetta veramente di farlo. Nel contesto e nel limite dello spazio espositivo non è data la possibilità di vivere il giusto percorso tra corpo e mente come invece le opere richiederebbero.
Si crea un’aspettativa di finzione, in cui il pubblico sente quasi il dovere di mostrarsi e reinterpretare, di imitare solo il gesto artistico, falsando la pratica professata dall’Abramović.
Al contrario, la mostra non andrebbe solo fruita ma rivissuta, quarant’anni al contrario, da dentro una fotografia, in un video o un semplice oggetto diventato simbolo di una ricerca artistica costante. “La vita è veloce, l’arte è lenta”, sostiene l’artista, e noi dovremmo andare a vedere la mostra e cedere: cedere al tempo delle nostre vite, cedere alle contraddizioni, cedere ai preconcetti, cedere alle imposizioni della società.
“Siamo dentro un ciclone – continua lei – e dobbiamo trovare il nostro occhio, il nostro centro di quiete”. E questa mostra lo è sicuramente.