Il colpo di pistola di Babilonia Teatri: start o the end?

Babilonia Teatri
Babilonia Teatri
Da sinistra: Enrico Castellani, Valeria Raimondi, Ilaria Dalle Donne

La morte come tabù, la morte e la vecchiaia, la paura della morte, il diritto alla morte, la morte tragica, quella comica. La morte perfetta: un boia e un colpo di pistola.
Una fine a venire quella proposta da Babilonia Teatri con “The End” a B.motion, la sezione del contemporaneo di Operaestate Festival, conclusosi a Bassano del Grappa in questi giorni.

“Voglio il mio boia, voglio comprarlo, affittarlo, voglio portarlo sempre con me, non voglio una morte lenta…” aggrediscono la scena Ilaria Dalle Donne ed Enrico Castellani, con la tecnica ormai nota della parola urlata a ritmo cadenzato e impersonale.
Niente che non si conosca o non si sia già visto nei precedenti spettacoli del gruppo veronese: dalla presenza in scena del tecnico al colpo di luci, dalla musica che fa tremare le poltrone allo scatto rabbioso con cui i performer entrano in scena.

Anche il tema indagato, seppur di sicuro interesse, non affonda del tutto: la morte lenta, agonizzante, quella postdatata delle trasfusioni, dei trapianti, delle flebo, delle pillole colorate e la fine grottesca in un letto d’ospedale con un pubblico non pagante. Eppure… forse almeno un cambio di registro avrebbe spiazzato, come ai primi tempi di “Made in Italy”. Ma il lavoro è ad una prima fase di studio e quindi rimaniamo con il beneficio del dubbio.

L’effetto più accattivante è quello dato dal gioco fra ‘start’ e ‘the end’ che si intravede in scena in alcuni momenti creando un certo disorientamento: il colpo di pistola improvviso segnala la partenza o la fine? La corsa a perdifiato dei due performer da una parete all’altra, al limite della forza e della sofferenza, è un andare verso o un fuggire da? Il cadere esausti a terra è un essere arrivati o terminati?

A questo gioco partecipano anche i pochi elementi scenografici che caricano la scena di un grande peso simbolico e danno forza alla drammaturgia, ancora imperfetta e un po’ sottotono.
Al centro dello spazio pende un crocifisso a grandezza smisurata, alle sue spalle un bianco e silenzioso frigorifero. Da quella piccola cella domestica fuoriescono le teste mozzate e sanguinolente di un bue e un asinello che, dopo essere state issate alla destra e alla sinistra del crocifisso, rimangono penzolati ad osservarlo.
L’amato presepe e la rappresentazione simbolica della nascita viene completamente stravolta e si tinge di rosso.
Giunge la stella cometa di cartone, portata a mano dal simpatico tecnico Luca Scotton, che gira a vuoto su se stessa, smarrita e attonita, quasi a voler dire: sono venuta a segnalare una nascita, ma qui sono già tutti morti!

THE END – Fase di lavoro n. 1
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Ilaria Dalle Donne, Enrico Castellani, Valeria Raimondi, Luca Scotton
durata: 23′
applausi del pubblico: 2′ 36”

Visto a Bassano del Grappa (VI), Operaestate Festival, il 4 settembre 2010

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  1. says: ciccio rombi

    lo studio reso pubblico è un rischio necessario che il teatrante di oggi deve correre … il pubblico che va a vedere uno studio si presenta con la stessa brama di chi si sintonizza su un reality show … con l’affamata curiositò di vedere un processo di lavoro ( perche quello è uno studio) sperando in cuor suo di poterne criticare l’operato.. di poter interagire. se ci fosse il teatrovoto vorrebbe con un sms dire la sua su quella o quell’altra scena. lo studio è quanto di piu rischioso. così come rischiosa è l’aspettativa che il proprio nome deve perseguire. questo è quello che un certo Pasolini chiamava essere “bestie da stile”: l’impossibilità cosciente o incosciente di cambiare a proprio piacimento e gusto la propria cifra stilistica ..di sterzarne percettibilmente o meno il percorso per non deludere il critico di turno e\o il direttore che ti produce perchè tu piaci al pubblico in un certo modo. purtroppo questo è il rischio che corrono gruppi come questo ( ed altri che chi legge ben conosce) messi da menti oculate sulla cresta dell’onda quali fenomeni para normali. mentre io li considero solo dei bravi ma normalissimi professionisti. io confido ( e molto) nella loro intelligenza che li ha portati a questo stadio dopo anni e anni di sacrifici .. confido(un po meno) nel buonsenso di chi segue il teatro di non demonizzare e santificare qualsivoglia gruppo perchè troppo spesso il teatro e il sistema teatrale bisogna periodicamente di santi fenomeni da osannare. e in questo non è poi così lontano dal sistema televisivo\mediatico … un consiglio citazionato: fregatevene del pubblico .. ” perchè il pubblico .. quello che ci fa esistere .. chiude gli occhi quando noi per meravigliarlo sfioriamo la morte”J.G.

  2. says: Simone Nebbia

    Recuperate le mie facoltà mentali partecipo ancora al dibattito. Nonostante sia l’unico a firmare con nome e cognome e questo irrimediabilmente mi fa parlare pressochè da solo.
    Giustissime le osservazioni, per me: se è impossibile venir fuori da questo sistema produttivo, auspicavo (e l’ho fatto anche scrivendone) proprio per questo che almeno le compagnie prendessero maggiore responsabilità di quel che portano in scena, e che quindi se si propone uno studio intanto lo stato del lavoro deve essere presentabile, per rispetto verso chi paga un biglietto e a qualcosa vuole assistere, poi deve avere una sua piccola compiutezza che non credo, per artisti così validi come ce ne sono tanti, risulti tanto difficile a volerlo, altrimenti sta sperperando risorse produttive. Ma lo vogliono? E’ la domanda…A questo si deve stare molto attenti credo perchè se il pubblico si abitua a vedere solo studi il rischio evidente è che quella compiutezza di uno spettacolo portato a sua conclusione, finito, non sapremmo più rintracciarla.
    Quanto alle critiche è corretto muoverle, ma è una scelta che appartiene a chi opera sull’arte in divenire: la sospensione del giudizio non comporta il silenzio, ma la partecipazione in altra forma, cioè operando privatamente con le compagnie. Il ruolo critico riacquista forza da questo confronto. E ce ne sono di compagnie che lo apprezzano. Ogni volta che m’è capitato ci sono stati ottimi risultati.
    Buona giornata a congiunzioni e puntini di sospensione.

  3. says: e.

    la mia domanda non si pone nei confronti dello spettacolo, che non ho avuto modo di vedere, quanto delle critiche conseguenti:
    se il lavoro è in stato iniziale, e dunque per l’appunto uno “studio”, perchè presentarlo se poi non sarebbe corretto muovere eventuali critiche?
    il “sistema trita-carne” di cui sopra non è lo stesso che spinge a mostrare anche uno spettacolo non ancora del tutto compiuto pur di mettere in cartellone “un nome”?
    e dunque, lo si accetta oppure no, e con esso le eventuali perplessità provocate dallo stesso?

  4. says: Simone Nebbia

    Bene ho esagerato. Non mi vergogno ad ammetterlo. Capita. Anche se il rischio di sembrare schizofrenico è notevole. Ma lo correrò. Mi scuso apertamente con Rita Borga con cui spero di poter un giorno rimediare. La lotta di quartiere, la guerriglia, è di bassa lega e di questo me ne vergogno. Venivo da giorni poco lucidi in costante nebulosa, con tutto quel che può venirne legandolo al mio cognome. Quanto a Babilonia mi dispiaceva fosse espresso un giudizio al primo studio (almeno arriviamo più avanti) perchè è rischioso poi se lo spettacolo muta di segno resta la nostra recensione non più consona. Ma è una scelta che rispetto comunque. Forse, e mi rivolgo a Rita direttamente, ho reagito così male perchè in tre giorni a Bassano a vedere spettacoli dibattere in convegno radunarci fra scriventi di teatro, mi sarei aspettato di conoscerci e confrontarci. Come successo con tanti altri. Credo sia bello e necessario. Spero un giorno. A presto e non me ne volere, se puoi.

  5. says: Simone Nebbia

    …è sicura di aver visto lo stesso mio spettacolo? Sono in profondo disaccordo, non tanto nei contenuti ma nel metodo utilizzato nella recensione. Io credo che noi (perchè facciamo lo stesso mestiere) dovremmo usare una maniera più profonda di analisi, che di certo dal suo pezzo non traspare. Quanto al suo “forse avrebbe…” non è il mio modo di intendere la critica, che non può sostituirsi alla creazione. Ma le dico che per me il cambio di registro è piuttosto netto. Inoltre, quanto all’opportunità di scrivere una vera recensione a uno stadio del lavoro così primordiale non le fa direi onore, perchè contribuisce al sistema tritacarne in cui ci costringe la fame di produzione. Mi dispiace che questo devo leggerlo su una rivista di tale serietà. Cordialmente S N

  6. says: sergioLG

    Ciao Rita, complimenti per il pezzo, attento e preciso. Capisco quello che dici riguardo al linguaggio di Babilonia, al loro codice che si ripete, rigoroso. Ti confesso che io all’inizio ho fatto fatica a non stancarmi. Poi è accaduto qualcosa: ho capito che a noi e i nostri occhi siamo viziati. Vediamo “troppi” spettacoli. E accade che tutto ci sembri presto già visto, già fatto, in magra evoluzione. A metà dello studio visto a Bassano la mia mente ha “scavallato”, da un lato si è messa nei panni di chi per la prima volta vede uno spettacolo di questo gruppo e che ha il diritto di godere di un linguaggio che di certo è stato ed è innovativo e sui generis; dall’altro ha capito che forse il linguaggio non è tutto. E’ vero che quello di Enrico e Valeria è un codice distruttivo, prepotente, che calpesta e sotto al quale è difficile individuare le evoluzioni nella drammaturgia e nella poetica. Però è anche vero che a noi “cronisti” è richiesto uno sforzo ulteriore per individuare la crescita dei contenuti e, certo, anche dei linguaggi. Senza che gli uni ci nascondano gli altri.
    Oltretutto sarà anche che venivo da altre cose viste a Bassano che francamente mi avevano lasciato senza più bussola riguardo al senso compiuto e concreto che, a mia opinione, anche lo spettacolo più ermetico e lo studio più embrionale dovrebbero garantire al pubblico.
    Grazie della tua analisi!
    S.