Nella splendida Cattedrale della Fabbrica del Vapore di via Procaccini a Milano, si è svolta l’unica replica di “The Festival”, ultimo appuntamento della “Trilogia della Catastrofe” di Lone Twin Theatre, nell’ambito del Festival Uovo.
La compagnia britannica, nata dall’idea di Gregg Whelan e Gary Winters, affronta in modo curioso e particolare performance urbane, progetti di strada e spettacoli, girando l’Europa e portando con sé una ventata di ottimismo.
“The Festival” è un lavoro curioso, che poco ha dello spettacolo teatrale, eppure non sarebbe facile neppure classificarlo diversamente.
In uno spazio scenico a pianta centrale, con sedie e tavoli, si racconta la storia dell’incontro fra due ragazzi, che, presi dalla passione musicale, si innamorano e felicemente (almeno per lei) si separano, passando per un festival musicale.
Lo spettacolo si svolge tra gag comiche, momenti di canto corale e spiegazioni al pubblico, che raccontano ciò che i personaggi vivono nella loro interiorità, con una semplicità quasi esasperata.
È difficile giudicare il lavoro. A tratti la leggerezza estrema di attori e regia dona al pubblico una ventata di sollievo, raccontando in modo poco arzigogolato temi importanti come l’amicizia, l’amore e il cambiamento. A tratti invece sembra che la semplicità sia fin troppa, e si trasformi in superficialità, quando le parti più fisiche sono lasciate un po’ al caso, e balli e danze che nascono come divertenti diventano ripetitivi, poco curati e troppo lunghi. Belli e intensi i momenti musicali, dove gli attori, con un autoironia non comune, riescono a prendere in giro di loro stessi e i loro personaggi, stabilendo un rapporto diretto con il pubblico.
Peccato per le spiegazioni, poiché è già tutto estremamente chiaro senza bisogno di sottolineature.
Sicuramente “The Festival” apre allo spettatore italiano, quello che va a teatro tutti i giorni (insomma, spesso!), una riflessione di non poca importanza. Se uno spettacolo simile, con interpreti che sono più vicini a performer che ad attori veri e propri, riesce a trasmettere un senso di leggerezza e ottimismo con poche cose e un ritmo non sempre fluido, facendo uscire dalla sala un pubblico sereno e soddisfatto, da che parte stanno andando gli artisti in Italia? Ci siamo abituati a voler scavare sempre di più, a cercare spettacoli ‘profondi’ che scuotano fortemente l’animo dello spettatore, che dallo spettacolo deve uscire cambiato, rigenerato.
Eppure, uno spettacolo come ‘The Festival’, leggero, fin troppo, e non privo di qualche difetto, riesce a colpire lo spettatore, magari anche quello più critico e analitico, perché anziché mirare a ‘cambiare’ la persona le distende l’animo.
Forse, nei momenti di crisi come questo, anche in teatro bisognerebbe cercare e ritrovare un po’ di leggerezza.
Qual è la strada giusta?
THE FESTIVAL
produzione: Lone Twin Theatre
di e con: Antoine Fraval, Guy Dartnell, Molly Haslund, Nina Tecklenburg, Paul Gazzola
durata: 60′
applausi del pubblico: 2′ 30”
Visto a Milano, Cattedrale Fabbrica del Vapore, il 20 marzo 2011
e invece ecco che così tutto è molto più chiaro.
quando dici
“E’ la conoscenza profonda (quanto più possibile, naturalmente) dei teorici che ci hanno preceduto che ci può dare l’umiltà necessaria per “andare avanti”, perchè ci ridimensiona, perchè la consapevolezza di chi sta in scena è più importante delle sue stesse creazioni” sei molto chiaro e sono d’accordissimo con te.
Lo sono un po’ meno quando dici che i problemi di fondo della scena non sono cambiati dal 700 a oggi. Trovo che il contemporaneo si sia trascinato e ancora si stia trascinando dietro alcune nuove questioni, tra cui di certo il linguaggio, la grammatica della scena, il problema della prossimità anche etica tra pubblico e palco.
Non capisco molto questa identità tra “contemporaneo” e “antico inteso come memoria storica”. Mi interessa ma, messa in questi termini, non la capisco. Se la forma commento ti imbarazza c’è sempre il mio indirizzo mail michellemartini82@gmail.com
Scusami, non mi va di lasciare così.
Stai proprio travisando tutto, ma forse sono io che non mi so spiegare.
Non credo affatto che sperimentazione sia cercare il nuovo.
Non mi interessa il concetto di “nuovo” che associo, semmai, a “moderno” e non certo a “contemporaneo”.
Contemporaneo ha a che fare con antico, inteso come memoria storica.
I problemi di fondo della scena non sono cambiati dal 700 ad oggi ( intendo questioni come “verità” “dialogo” “rapporto” “entrata” ecc.)
Il filo che dovrebbe tenerci in stretta relazione con chi è venuto prima di noi, è proprio quel che mi sembra oggi mancare.
E’ la mancanza di quel filo, che ci fa prendere troppo sul serio.
E’ la conoscenza profonda (quanto più possibile, naturalmente) dei teorici che ci hanno preceduto che ci può dare l’umiltà necessaria per “andare avanti”, perchè ci ridimensiona, perchè la consapevolezza di chi sta in scena è più importante delle sue stesse creazioni.
Sono trent’anni che studio.
Non mi sono mai preso sul serio in vita mia.
Diciamo che forse è la forma “commento” che non è il mio forte.
Ora chiudo davvero, che battibeccare in luogo pubblico non è educato e soprattutto non rende giustizia a nessuno.
Un saluto.
Senti,
sinceramente non stai capendo proprio niente di ciò che intendo dire.
Mi spiace.
perché tu ancora pensi che chi fa sperimentazione – sperimentazione vera – sia in cerca del *nuovo*, in cerca di qualcosa che non sia stato detto. L’identità tra “nuovo” e “contemporaneo”… questa sì che è insipienza. Sul fatto di urtare le suscettibilità ti tranquillizzo, ci sono cose, in questo teatro, che urtano le coscienze molto di più di un commento come il tuo, cose molto più gravi. Fortunatamente c’è qualcuno, tra quelli che fanno il teatro, che non si prende poi così tanto sul serio. Così si va avanti davvero.
grazie a tutti
Non intendevo urtar suscettibilità.
Mi scuso con tutti.
Adieu.
Ok, mi arrendo!
E’ giusto, andiamo avanti! E senza voltarsi indietro! (così si può pensare di dire e fare cose che nessuno ha mai detto o fatto prima.
Basta con queste menate dell’antico e del contemporaneo. Cerchiamo d’esser moderni.
W l’insipienza!
parlando a Mario: la distinzione tra spettacolo e teatro non credo possa esattamente essere liquidata in due righe di commento anonimo, soprattutto se è un commento soffocato da ragionamento pseudo-filosofici da pensiero debole (differenza tra pensare e preoccuparsi… ma che vuol dire?!)
Calando un velo pietoso sul qualunquismo della tua allusione ai notiziari-informazione-mondo-che-va-in-pezzi etc…. il teatro non può rovinare una giornata? Prova a chiederlo al tuo Carmelo, lui ti avrebbe risposto che se il teatro non fosse in grado di rovinare le giornate non avrebbe senso farlo, perché sarebbe meno potente dei notiziari. I notiziari, quelli sì, sono fatti per farti preoccupare e non pensare. Almeno la maggior parte, ché ci sono anche strumenti che colpiscono nel segno. Il teatro è molto di più.
La cosa più triste è stare qui a far filosofia sul teatro contemporaneo… e poi mettersi a fare sorrisini compiaciuti non appena qualcuno (innocentemente) cita Carmelo Bene. Ma basta! Come se Carmelo Bene fosse l’unico ad aver capito il teatro. Magari nel suo contesto sì, ma nel frattempo sono passati trent’anni. Basta, andiamo avanti! Stimo Giacomo per quello che ha detto, non mi interessa che si citi Carmelo o Leo o Jerzy o Antonin…
Carissimo Andrea,
è il mio commento che andrebbe letto meglio.
Ma dialogare è arduo se non si avverte la necessità di comprendere a fondo ciò che distingue “spettacolo” da “teatro”.
Invito a riflettere anche sulla sostanziale differenza che corre tra il “pensare” ed il “preoccuparsi”.
Peraltro non conosco nè spettacolo, nè teatro che possa rovinar giornate. Per quello ci sono i notiziari.
Un sorriso di apprezzamento per Giacomo e per la sua citazione di Carmelo.
buongiorno, ho visto anche io lo spettacolo e l’ho trovato banale e per niente coninvolgente, mi domando che fine stia facendo il teatro, se questi sono gli spettacoli che girano, dovremo coniare un nuovo termine, il tele-teatro, cosicchè si possa fare una distinzione tra ciò che ha lo stesso coinvolgimento della televisione e lo stesso linguaggio, e il teatro, che non si riduce a mero intrattenimento, quello non è il TEATRO, e con questo non intendo dire che non ci sia bisogno di spettacoli come questo, dico solo non confondiamo le cose, tutto deve poter avere diritto di espressione e di pubblico, anche perché sennò alla mediocrità chi ci pensa? cordialità
oltre tutto qui si parla di leggerezza di regia e attori, non certo di tema. si parla di uno spettacolo superficiale che ha momenti ripetitivi e non curati, quella è la leggerezza di cui parla. non dice che bisogna rovinarsi la giornata per avere uno spettacolo bello…
nella recensione non c’è scritto che la leggerezza non va bene, nè che la pesantezza sia sintomo di cosa interessante, c’è scritto ben altro, e aperta una riflessione. forse va letta meglio!
Ma questo equivoco non crollerà mai?
Ma possibile che non si possa considerare l’esistenza della profondità unita alla leggerezza?
Passò invano Wilde? (Le cose gravi con leggerezza…)
Ma perchè il pensare si associa necessariamente alla “pesantezza”?
Ben venga l’intrattenimento (spettacolo), ma il teatro è un’altra cosa. Profondo e leggero come piuma.
Solo quando pensiamo siamo leggeri. Se avvertiamo pesantezza, non stiamo pensando, ci stiamo preoccupando (e sicuramente il teatro non c’è).