Vai a vedere Peter Brook: puoi essere spavaldo quanto ti pare, ma siediti in platea davanti a uno spettacolo di colui che solo a nominarlo è già qualcosa di profondamente segnato, come il suo viso buono e i suoi occhi a punta. Guardalo spassionatamente, dopo che il suo nome l’hai letto fin dai manuali dell’università, e «il Marat-Sade» era una specie di mantra (ma l’hai visto in DVD a vent’anni). Tanta è l’attesa perché di Brook non si può non conoscere la sicurezza della mano nella scelta del tema e della forma, degli attori, del tono. C’è proprio un linguaggio, un “ambiente Peter Brook”, che non è maniera, sempre pronto a cambiare ogni volta che rischiava di diventarlo. E la sua sopraffina arte di liberarsi fin dalle prime battute di ogni convenevole scenico o comunicativo, puntando dove vuole, schivando tematiche trite, cliché…
È forse tutta questa reverente aspettazione che si è appollaiata in poltrona, come un grande uccello su un filo teso, per la messinscena di “The prisoner”, firmato insieme alla collaboratrice Marie-Hélène Estienne.
Anche in questo suo ultimo lavoro non ci gira intorno: il tema è la colpa, la punizione, la redenzione, così come assicura nella presentazione dello spettacolo, in scena al Teatro Vittoria per Romaeuropa Festival.
La semplice trama è proposta con un solo piccolo accorgimento retorico: una repentina analessi, a pochi minuti dall’inizio dello spettacolo, che ci riporta al principio della vicenda, e che permette poi al dramma di ritrovarsi nel finale allacciato in una elegante forma di bracciale, con i capi leggermente sovrapposti.
Racconta di Mavuso (Hiran Abeysekera), un parricida che alberga in cuore l’impuro desiderio della sorella (Kalieaswari Srinivasan). Essa, legata d’amore incestuoso proprio con la vittima, assiste alla sua uccisione compiuta per vendetta, ira e gelosia dal giovane figlio. Mavuso riceve allora una punizione singolare dallo zio, giudice della sua colpa: quella di prendersi lui stesso in carico la propria espiazione. Condotto su una collina che guarda l’edificio di un enorme carcere, non vi sarà rinchiuso: accampato sulla nuda terra, attenderà la maturazione del proprio senso di colpa in espiazione e rinascita. Sarà quello il momento in cui potrà finalmente abbandonare il suo esilio.
La scenografia, composta di rami e pietre che si immaginano in un paesaggio adusto, stesa sotto l’esatta illuminazione naturalistica di Philippe Vialatte (folte batterie di PAR, controluci da manuale) che mima poeticamente albe e tramonti, sembra denunciare la scelta di un’ambientazione genericamente non-occidentale, e quindi limitare l’interpretazione a uno specifico coté etnico.
Eppure incesto e parricidio si danno come temi universali (basterebbero i nomi di Edipo e Fedra), crimini irreversibili e umani per eccellenza.
Ecco sorgere dunque il primo bivio interpretativo: siamo di fronte alla scelta di rappresentare una storia particolare, in un particolare contesto etno-antropologico, o un mito universale? E, una volta data la risposta, cioè che probabilmente si tratta di una storia pensata fin dall’inizio come universale, con quali strumenti rappresentativi ci è data? Le corrispondono? O, che è la stessa cosa: con quale postura ricettiva dobbiamo accoglierla?
La dimensione portata in scena, tutta chiarezza nel suo svolgimento, richiama quella universale per eccellenza, la tragedia: il linguaggio è luminoso e piano, gli oggetti hanno forme che vibrano di trattenute simbologie, gli spazi sono tracciati come assoluti. E la trama vera e propria: niente a che vedere con gli individualismi della modernità, è palpabile l’aspirazione al discorso generale. Quanta distanza infatti tra l’idea narrativa di un uomo che accetta l’imposizione di una solitudine di espiazione e i braccati dell’Ottocento dostoevskiano, hughiano o di quello d’appendice di un Dantès/Montecristo; o con quelli del Novecento kafkiano, il cui processato nulla conosce o riconosce, colpa e giudizio, e con l’omonimo Prigioniero di Dallapiccola, che approfitta di una porta lasciata aperta, condannandosi al rogo. Qui siamo altrove.
I delitti di Mavuso, quegli scelera che in Attica o in Argolide fanno arrestare il corso del sole, esigono il grido e il lamento del coro, auspicano lo spalancarsi della Terra; inaspettatamente pongono il protagonista di “The prisoner” di fronte a dinamiche di redenzione che, ad onta del contesto assolutizzante, sono tutte moderne, private.
Il protagonista rimane sempre conchiuso in un paesaggio unicamente individuale, e infine a mezzo del guado tra simbolo e personaggio, egli è nel pieno del paradosso di essere, per così dire, impersonalmente individuo. E ciò perché a essere impercettibile, persino assente è la dimensione divina.
Assente Dio, o il destino, assente la comunità, così anche la tragedia, di conseguenza.
Nemmeno l’orizzonte di un’illuminazione propriamente detta può funzionare a recuperarla o sostituirla: qui l’epifania sa più di casi fortuiti e sbilenca autoanalisi che di un subitaneo travaso di Verità. Non è il tempo di un protagonista in dialogo, ma il tempo “fuori” dalla prigione di Mavuso che maggiormente determina in lui un mutamento: è la definitiva rinuncia alla sorella, che gli chiede di far da padre al figlio nato dal rapporto col padre ucciso, ad accendere in qualche modo, con qualche meccanismo che sa di psicologia un po’ facile, la “catarsi” del colpevole. È una rinuncia, poi, che non avviene per crescita morale, ma per esasperazione, per un burn-out evidenziato da una recitazione che di punto in bianco si fa convulsa, e con modalità addirittura digitali, con un “clic”. Si perde Dio, ma non si recupera l’uomo, insomma, illuministicamente inteso, libero.
In conclusione, lo stile ascetico e l’andamento generalmente avulsi da determinazioni di tempo e spazio che dipingono il lavoro, se vorrebbero trasportare la trama a un livello più universale di quello del racconto o della semplice vicenda, falliscono per una debolezza tutta strutturale della costruzione drammaturgica. Invece di avvicinarla allo statuto tragico, conseguono tutt’al più una sorta di sfibramento della trama e dei suoi significati, un loro pericoloso assottigliamento verso l’apologo comodo e ininfluente. Tanto che la dimensione più corretta del lavoro finisce per essere quella della parabola, una definizione di genere che, lungi dal costituire un punto di partenza, certifica un drammatico punto di arrivo: nella parabola vige l’autoreferenzialità di un insegnamento ben confezionato ma implacabilmente ex cathedra, che rischia la sterilità – e a cui solo può talvolta porre rimedio la venerabilità del cattedratico.
Sotto le zampe del grande uccello dell’aspettazione, appollaiato sul filo teso, la trama sfibrata e assottigliata di “The prisoner” si rispecchia nell’intera struttura drammaturgica. E mentre noi siamo ancora a chiedere al grande vecchio un ennesimo barlume di luce su questo frammento di vita che è il nostro presente, quel filo si strappa.
The prisoner
Testo, Regia Peter Brook, Marie-Hélène Estienne
Luci Philippe Vialatte
Scene David Violi
Con Hiran Abeysekera, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan, Hayley Carmichael
Assistente ai costumi Alice François Con l’aiuto di Tarell Alvin McCraney, Alexander Zeldin
Produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
Coproduzione National Theatre London, The Grotowski Institute, Ruhrfestspiele Recklinghausen, Yale Repertory Theatre, Theatre For A New Audience – New York Traduzione e adattamento sovratitoli in italiano Luca Delgado Foto © Simon Annand
durata: 1h 05’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Roma, Teatro Vittoria, il 19 ottobre 2018