Il palcoscenico sobbalza, sembra quasi che stia per sfondarsi, e che singulto in platea quando Michele si alza di scatto e vuole “mettere le mani addosso” alla madre!
È possibile lasciarsi ancora aggricciare la pelle da fatti inventati, parziali, da drammi borghesi, da forme che a mente fredda non diremmo capaci di colpirci ancora?
È raro, ma sì. Solo a certe condizioni.
Gli spettacoli che condividono, pur nelle differenze, questa caratteristica sono “Plastilina” e “The Red Lion”, in scena al Napoli Teatro Festival Italia 2020.
Il festival, messo inizialmente in forse dall’esplosione della pandemia, riesce invece a programmare per tutto il mese di luglio una notevole mole di spettacoli, restringendo l’iniziale campo d’azione internazionale, ma offrendo comunque un interessante panorama interno. L’impresa è probabilmente facilitata dalla linea “morbida” della direzione di Ruggero Cappuccio: nessun tema centrale, nessuna impostazione/imposizione teorica forte ed esclusiva.
Il NTFI è aperto a molte anime del teatro, da Anagoor a Lino Musella, da Lombardi-Tiezzi a Vetrano e Randisi, da Pippo Delbono a Chiara Guidi (di cui parleremo prossimamente), e ancora Lina Sastri, Claudio Ascoli, senza dimenticare molto teatro “giovane”, in una sezione ad esso dedicata (Osservatorio) e diffuso poi in tanti degli spettacoli presenti nella altre sezioni.
In tal senso è degna di attenzione la piccola rassegna di teatro catalano, con un gruppo di opere tradotte da Enrico Ianniello in napoletano (almeno così è per “Plastilina”) e scenicamente affidate alle più vitali realtà teatrali locali. Non si tratta di un’operazione di acribia filologica, quella della traduzione, né antiquaria o nostalgica: il napoletano è poco più che un accento e un grappolo di idiotismi, accompagnati da un riadattamento ambientale, da una mano di generica ma efficace couleur locale contemporanea, non ostentata, non macchiettistica, non compiaciuta, una sorta di oliatura generale dell’ingranaggio scenico che fa miracoli perché fornisce un indirizzo di lavoro chiaro.
Prendiamo “Plastilina”, appunto, di Marta Buchaca, prodotto dal Nuovo Teatro Sanità, con attori quasi tutti legati a quel progetto (la giovanissima Arianna Iodice ne frequenta ancora i laboratori).
La qualità del lavoro in scena, basato su un testo che non brilla per originalità (così come alcuni tratti del “contorno”, sembrano sfuggiti a uno sguardo più consapevole, i costumi troppo eloquenti e stucchevoli, la scenografia dal sapore di appoggio puramente tecnico), è tutta da attribuirsi a tre elementi. La traduzione, di cui si diceva, abile a fondere gli psicologismi in veri atti verbali; la regia di Mario Gelardi, intesa nel senso di lavoro con gli attori e gestione consapevole dell’intero materiale testuale, di cui evidenzia l’andamento a spirale grazie anche alle musiche che lasciano nelle orecchie un ricorrere di tinte, se non di temi; e, soprattutto, quel cast di attori formidabili, la cui irruenza, a tratti poco controllata e altrove magari poco a fuoco, è perfettamente specchiata nell’aria calda di un’estate napoletana, nelle piazze a lume di lampione e di smartphone, negli appartamenti borghesi di una middle-class partenopea senza pretese e clamorosamente priva di rete di fronte al dramma.
Il tema del lavoro avrebbe dovuto essere, sulla carta, una generazione preda dei social e delle sfide da condivisione di video, “cinica e sopra le righe”, in cui un adolescente si spinge fino all’atto estremo dell’omicidio filmato col cellulare. Ma, trasportato nelle cadenze e negli spazi di una Napoli come quella che Ianniello, Gelardi e i suoi attori ricostruiscono, il tema diviene un altro.
E allora, come si diceva: le assi del piccolo palcoscenico costruito nel chiostro di Palazzo Fondi tremano e s’imbarcano quando questi ragazzi ci passano sopra; gli schiaffi che si danno sono veri, e si fanno sentire pure in platea perché i loro corpi sono disposti alla lotta, a un contatto senza cautele; la reazione del figlio contro la madre fa rizzare i capelli; le cose che avvengono nella spianata di piazza Plebiscito le vedi davvero, proprio come quella ragazza bionda che fa sesso sulla gradinata.
Il tema, insomma, grazie a questi tre elementi, riesce a non essere d’attualità ma universale, e diventa la spaventosa forza, l’energia incontenibile dei corpi giovani, a cui il modo di oggi dà, certo, nuovi raccapriccianti sfoghi, ma è una forza che salta fuori da quel palco e ti raggiunge come un elemento di natura a sé, che non ha età e non conosce epoche.
Più disteso nel tempo, più dosato nelle energie, più giocato sulle singole individualità attoriali è “The Red Lion”, di Patrick Marber (l’autore dello spettacolo da cui fu tratto il film “Closer”), uno degli spettacoli più attesi del festival.
Anche questo testo arriva sulla scena rimpastato efficacemente con mani napoletane dal regista Marcello Cotugno e dal traduttore Marco Casazza, ed è impostato in un edificio scenografico funzionale, opera di Luigi Ferrigno.
L’argomento è il calcio delle serie inferiori: un allenatore con pochi scrupoli (l’affilato, urticante, perentorio Andrea Renzi) e un tuttofare ex-calciatore (Nello Mascia) si giocano il destino di un giovane talento (Lorenzo Scalzo), ognuno proiettando sul malcapitato, reduce da un’adolescenza difficile, le frustrazioni della propria vita d’insuccessi.
La trama è dispiegata con eleganza in lunghe scene, in cui i tre unici personaggi si alternano in una sorta di duetti o terzetti quasi operistici, legati fra loro da una sorta di liason-des-scenes in cui ogni ingresso è quasi necessario, ogni cambio di registro credibile, ogni zona del palco gradualmente connotata e significativa, con una sola ellissi temporale a far da confine tra il grosso del lavoro e il finale.
Persino l’interferenza di accenni simbolici all’interno di un’impostazione del tutto naturalistica è inserita con abilità (il va-e-vieni delle luci, il punzecchiare di un suono come di allarme che si fanno strada nella scena in cui l’allenatore e il tuttofare lentamente escono allo scoperto l’uno contro l’altro, svelando le reciproche mire), e si pone sul filo della stessa partitura sonora e visiva su cui giocano gli attori e su cui scorre il testo.
Ma, soprattutto, anche qui, emerge l’efficacia dell’attore tradizionale, l’attore drammatico, l’agio con cui (soprattutto) Nello Mascia, veramente enorme, sempre a tema, sempre cosciente, mai accomodato sulla tecnica o sul mestiere, tratteggia un carattere che da affettuoso si fa via via sempre più ambiguo grazie a sfasature impercettibili. Il tutto senza bisogno di lumeggiamenti mefistofelici o epifanie ctonie, e senza perdere un attimo il contatto con l’arco ampio del testo, oltre che del contesto.
Una lezione da tenere a mente.
Plastilina
Scritto Da Marta Buchaca
Con Teresa Saponangelo, Ivan Castiglione
e con Vincenzo Antonucci, Mariano Coletti, Giampiero De Concilio, Arianna Iodice
Luci Alessandro Messina
Costumi Alessandra Gaudioso
Impianto Scenico e Regia Mario Gelardi
Produzione Nuovo Teatro Sanità
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Napoli, prima assoluta, il 15 luglio 2020
The red lion
Di Patrick Marber
Traduzione Marco Casazza
Adattamento Andrej Longo
Con Nello Mascia, Andrea Renzi, Lorenzo Scalzo
Scene Luigi Ferrigno
Costumi Anna Verde
Luci Pasquale Mari
Colonna Sonora Marcello Cotugno
Regia Marcello Cotugno
Direzione Di Scena Lello Becchimanzi
Aiuto Regia Martina Gargiulo
Assistente Alla Regia Chiarastella Sorrentino
Assistente Alle Scene Sara Palmiero
Suono Daghi Rondanini
Datore Luci Lucio Sabatino
Capo Macchinista Salvatore Bellocchio
Coproduzione La Pirandelliana, Teatri Uniti
durata: 1h 40′
applausi del pubblico: 2′ 30”
Visto a Napoli, prima assoluta, il 15 luglio 2020