Tratto da un romanzo del 1972 di Hugo Claus, “The year of cancer” è una storia d’amore piuttosto stereotipata: una donna sposata e con prole incontra un uomo più grande di lei, con il quale inizia una relazione. Prima di lui, i suoi unici rapporti erano stati con il marito, dal temperamento violento.
La storia con l’amante, dopo una fase d’infatuazione, inizia a sgretolarsi. Ma se la progressiva distruzione della coppia da un lato fa nascere la consapevolezza di un sentimento assoluto, dall’altro scatena in lei il desiderio di nuove esperienze, ricercate con la spregiudicatezza di un’adolescente.
L’incapacità di stare insieme e l’impossibilità di lasciarsi creano un cortocircuito, che costituisce la parte interessante della vicenda di questi due naufraghi in balia di sé stessi, continuamente riportati alla riva del loro sentimento da una corrente sommersa.
Luk Perceval, per la prima volta in Italia ospite del Piccolo Teatro di Milano, propone un’esperienza insolita. In questo spettacolo la parola è ridotta all’essenziale. Il testo diviene strumento del corpo, suggeritore di azioni. Ma il regista fiammingo crea qualcosa di più. Non sottrae la parola per creare semplicemente un teatro fisico: riesce a sublimare il testo, lo innerva nel profondo dei suoi attori, tanto che essi lo restituiscono al pubblico in forma di pura energia. Non solo con il formidabile vigore fisico dei protagonisti, in continuo movimento per due ore, ma soprattutto per mezzo della tensione emotiva che scorre tra di loro.
Lui (Gijs Scholten van Aschat) e Lei (Maria Kraakman) sono capaci di esprimere la storia che raccontano e i sentimenti che provano semplicemente guardandosi negli occhi: creano una connessione elettromagnetica, che non ha bisogno di battute. La qualità recitativa è così fine da aggirare l’ostacolo linguistico e tradursi in comunicazione sensoriale. Nonostante a tratti le partiture fisiche siano eccessivamente lunghe, sorprende la capacità di commuovere solo attraverso il respiro.
Come in ogni rapporto, il sesso rappresenta un aspetto fondamentale, continuamente ricercato. Ma l’atto non è mai mimato, bensì riprodotto attraverso allusive composizioni fisiche di raffinata poesia, che suggeriscono qualcosa di più del semplice amplesso.
Per rappresentare fisicamente un amore così letterario, il regista confessa di aver fatto lavorare gli attori sul senso di disperazione. Quella disperazione di non capire un sentimento, di non saper accettare le azioni dell’altro, pur continuando inevitabilmente ad amarlo. Un’angoscia sfibrante, senza via d’uscita: una candela che brucia senza consumarsi mai, riversando la cera solo su sé stessa. È questa distruzione come gesto fisso e inevitabile che porta il pubblico a una sorta di catarsi: ci mostra la meravigliosa bellezza di un sentimento autentico e quanto sia importante preservarlo, più del nostro stesso corpo.
Emblematici sono i riferimenti all’infanzia. Nella scena totalmente vuota, in cui perfino le quinte sono eliminate per lasciare spazio alla totale presenza degli attori, spicca un triciclo. La narrazione lo riconduce alla figlia di lei, ma in realtà è utilizzato dai protagonisti come gioco per rincorrersi, inseguirsi, colpirsi.
Allusione al mondo dei giocattoli (per adulti) è anche l’unico segno scenografico dato da una moltitudine di sex doll unicamente maschili, sospesi nell’aria. Questo elemento sembra legarsi più alla figura di lei, alla sua fame di esperienza e al suo corpo che pare essere indifferente all’orgasmo. È infatti lei a strappare via dei pezzi di scenografia, a morderli, scoppiarli e giocarci, insistendo su una recitazione forzatamente infantile, che si alterna a una pulizia del gesto e della parola di straordinaria efficacia. Tuttavia, la scelta delle bambole, benché di grandissimo effetto, sembra un sofisma intellettualistico, risultando poco necessaria alla messinscena.
Lo spettacolo è costellato di silenzi lunghi e non agiti, propri più del tempo reale che del tempo teatrale; ma l’intensità dell’energia che pervade la pièce li rende scenicamente accattivanti, mostrando al pubblico lo stralcio di una realtà vissuta e non recitata. Del resto, “l’obiettivo del teatro è di essere reale come la vita” sostiene lo stesso Perceval.
THE YEAR OF CANCER
di Hugo Claus
regia Luk Perceval
con Maria Kraakman, Gijs Scholten van Aschat
adattamento teatrale Peter van Kraaij, Luk Perceval
drammaturgia Peter van Kraaij
scene Katrin Brack, luci Mark Van Denesse
musica Jeroen van Veen
costumi Annelies Vanlaere, coreografie Ted Stoffer
produzione Toneelgroep Amsterdam
con il supporto di Mies e Jaap Kamp / van Meeuwen Kan fonds
Prima rappresentazione italiana
durata: 1h 50’
applausi del pubblico: 2’ 28’’
Visto a Milano, Piccolo Teatro Strehler, il 6 aprile 2018
Prima italiana