“E’ un regalo che ha voluto farci”: così Elisabetta Lapadula del CRT di Milano spiega il perché del workshop che Tim Robbins sta conducendo al Teatro dell’Arte della Triennale.
Il meno hollywoodiano di Hollywood arriva a Milano sancendo una collaborazione che prosegue dallo scorso anno. E’ nuovamente in Italia con quella Actor’s Gang che ha fondato trent’anni fa e mai abbandonato, e che continua a coltivare anche quando il cinema lo porta lontano.
Con lui Cynthia Ettinger, codirettrice artistica della Gang e l’attore Bob Turton.
Un divo più europeo che americano, meno attore e più regista, meno star e più artista.
Arriviamo insieme, per caso, all’entrata della Triennale, impossibile non notarlo nei suoi quasi due metri che ne fanno il più “alto” della Walk of Fame. Cappello di feltro marrone, jeans, maglietta e uno sguardo che cattura.
“Buongiorno signor Robbins… sono qui per il suo lavoro”. Sorride soddisfatto mentre finisce la sigaretta; scambiamo quattro chiacchiere a pochi minuti dall’inizio del suo primo incontro con il gruppo. Parliamo di teatro, della noia terribile di alcuni luoghi comuni, della bellezza delle lingue diverse e di come la comunicazione sia più efficace quando è arricchita dal gesto, “come se si recitasse nella vita!” sussurra tra un tiro e l’altro.
Si capisce che non ama le banalità dette per circostanza, e paradossalmente è più lui a far domande. E’ timido, di quella riservatezza sincera davanti alla quale non si prova imbarazzo ma, anzi, ci si sente bene, pronti al confronto perchè accolti da uno sguardo curioso.
Nei pochi minuti è più il tempo del silenzio e dell’ascolto reciproco rispetto al parlato, quasi un naturale preludio al lavoro che lo aspetta a pochi metri da lì, in teatro, con i partecipanti pronti a confrontarsi con il suo metodo, con la sua conduzione.
Entro in teatro e il palco è pieno, ci sono tante persone tra cui molti professionisti. “Non abbiamo scelto noi i partecipanti, si sono presentati loro e li abbiamo presi senza esclusioni… Pensavamo che magari durante il lavoro ci sarebbe stata una scrematura naturale invece non è andata così, anzi! Il gruppo si è unito e sono rimasti tutti” ci racconta soddisfatta Lapadula mentre ci sistemiamo in platea nell’attesa delle quattro ore di workshop che sta iniziando.
“Quello che faremo è l’esplorazione di diversi stati emotivi attraverso ogni parte del vostro corpo. Molte volte possiamo riconoscere l’emozione di qualcuno dalla sua fisicità. Nell’osservare ciò, uno dei nostri compiti è interpretare queste storie e trovare il modo di raccontarle senza le parole. Quindi attraverseremo quattro emozioni specifiche e proveremo a renderle manifeste in ogni parte del corpo, dentro e fuori. Così facendo troveremo anche la fisicità del nostro personaggio”.
Il gruppo è sistemato su tutto il palco, mentre Robbins non sale quasi mai e si posiziona in piedi sulla scala centrale che dalla platea porta in scena. Al suo fianco c’è la ‘nostra’ Carolina Truzzi per la traduzione simultanea, insieme all’occhio attento e partecipe di Cynthia Ettinger, che non perde un attimo del percorso e interviene a tratti nel dare input. Bob Turton è invece dentro, entra negli esercizi proposti e aiuta dall’interno il gruppo e i singoli.
Il lavoro prosegue in modo serrato, il training proposto ricorda per certi versi quello di Ariane Mnouchkine al Théatre du Soleil, realtà che Robbins apprezza e conosce bene, e consiste in un risveglio di tutto il corpo, dalla punta dei piedi alla testa. La sua conduzione interviene raramente sul palco e altrettanto di rado perde la calma. L’esplorazione delle emozioni è minuziosa, cullata spesso dai Sigur Ros e sempre lontana dalla parola che, spiega il regista di Dead Man Walking, è un “bonus” da usare quando serve.
Il tempo passa veloce e dopo una breve pausa si riprende. “Quello che avete portato in scena mi ha fatto ricordare una canzone di Leonard Cohen, la Canzone di Bernadette” commenta Robbins al gruppo, seduto sul palco prima di iniziare la seconda parte, in una sorta di regalo, di restituzione. Poi ci si rimette in cammino, le parole che risuonano di più sono “usa tutto il corpo” o “rimani nel tuo spazio… non occupare lo spazio di un altro”. Il gruppo raccoglie i consigli cosciente di vivere qualcosa di unico e sorprendente.
“E’ molto più bello vedere due persone che decidono lentamente, insieme, ad esempio di toccarsi. Allora sperimentiamo davvero un’unità… Se un attore ha un’idea e afferra un altro non funziona per niente; vuol dire che non sta cavalcando la sua emozione e che non gli interessa della persona che ha accanto ma solo di sé stesso, e non c’è spazio sul palco per chi è così”.
E a proposito del workshop appena condotto, “Abbiamo visto tantissima condivisione, abbiamo creato insieme delle realtà dal nulla, avete sperimentato come l’emozione possa creare una storia. Pensate quindi che, quando creiamo degli spettacoli e abbiamo il dono di usare la parola, il lavoro non cambia, bisogna sempre trovare l’emozione tutti insieme, anche nello sviluppo di una pièce o di una performance: non si decide a casa cosa fare, perché magari qualcuno potrebbe non ritrovarsi in quello che ha pensato qualcun’altro e si creerebbe ostilità. Invece, se si rimane aperti, si arriva senza sapere niente di quello che accadrà ma si è generosi con le persone con cui si lavora: quella generosità tornerà indietro e tutti insieme si andrà allo scoperta, senza bisogno di parlare di un personaggio o di un altro, ma scegliendo uno stato emotivo con cui affrontare il lavoro e vedere se si trova una verità. Se tutti affrontano il lavoro con questo spirito allora si può creare davvero”.
E’ con questo breve discorso che Tim Robbins si congeda. La sua tappa milanese lo vedrà nei prossimi giorni in visita al carcere di Bollate, dove è attivo un laboratorio teatrale; mentre aumenta la curiosità di vedere il suo “Sogno di una notte di mezza estate” in scena alla Triennale, dal 22 al 24 giugno prossimi.