Il Torino Fringe Festival è arrivato alla quarta edizione lasciando invariate le intenzioni dell’esordio: portare il teatro in città, in spazi e con compagnie che gli abbonati e i soliti frequentatori di sala probabilmente non conoscono.
Le strutture partecipanti quest’anno sono state otto, distribuite intorno al centro città; in ognuna un programma di tre o più spettacoli con repliche giornaliere per l’intera durata del festival.
Come già nelle edizioni precedenti, gli organizzatori del Fringe sono dieci compagnie torinesi, mentre gli spettacoli selezionati provengono da tutta Italia. Il festival, oltre alla programmazione di base, prevede concerti, teatro di strada, laboratori e incontri con gli operatori.
Cominciamo questa breve escursione tra gli spettacoli che più ci sono piaciuti del Tofringe 2016 dallo Spazio Ferramenta, un sotterraneo inaspettato a cui s’accede dall’ingresso del Sibiriaki, locale di specialità russo-siberiane (e ampia selezione di vodka).
Onda Larsen, compagnia torinese fondata nel 2008, porta per la prima volta in Italia due pezzi del drammaturgo brasiliano Pedro Montalban Krobel, per la regia di Emiliano Bronzino. Uno dopo l’altro si alternano in scena “Duo” e “Passo a Due”, entrambi sul tema del rapporto amoroso.
Il testo insegue l’ambiguità massima con l’intento di rintracciare un comun denominatore, al di là di generi e circostanze, nei rapporti affettivi.
Emiliano Bronzino escogita una messa in scena in linea con l’ambiguità di Krobel, aprendo alla variazione e non senza divertimento.
In “Duo” vediamo un lui (Riccardo De Leo) e una lei (Lia Tomatis) che consumano un rapporto in cui l’orgoglio, l’insicurezza, l’incomunicabilità portano all’asfissia.
In “Passo a Due” abbiamo un rapporto tra due uomini, che in un paio di passaggi del testo sono anche indicati come fratelli – il che costituirebbe un incesto maschile, cosa che sembra soltanto conferire un che di trasgressivo in più, ma senza nessun tornaconto drammaturgico.
Il racconto procede per situazioni, frammenti scanditi da buio e balletti. I due si amano, si odiano, si combattono, si sbloccano, si scambiano tenerezze.
Bene assortiti gli attori, Gianluca Guastalla solido, spigliato, armonico mentre De Leo va verso l’isterico e il patetico. Nota negativa le coreografie e i balletti, poco coinvolgenti e spesso didascalici.
Lo spazio Ferramenta risulta particolarmente adatto per “Danlenuàr” di Giacomo Guarneri, monologo sugli ultimi momenti di un minatore rimasto sepolto nella tragedia di Marcinelle.
Antonio parla a sua moglie Genoveffa, ripercorre i loro sette anni d’amore mentre il buio si addensa e lo mangia a poco a poco.
La grazia di Giacomo Guarneri nel dar voce a questo figlio del popolo è esemplare – e ci ricorda per certi versi il grande Saverio La Ruina. Gesti e intenzioni calibratissime, un ritmo suadente che fa perdere lo spettatore nella narrazione, lo fa ridere di gusto, lo fa patire.
Guarneri incarna con naturalezza, in modo vivido, la semplicità di un giovane minatore siciliano, raccontando le sue giornate e la delicatezza del suo dialogo con la moglie, sposata e subito lasciata per andare in Belgio a lavorare.
Non ci accorgiamo quasi che la morsa si stringe, non vorremo mai salutare quest’uomo, lasciarlo nel buio con il suo amore color seppia. E quando la luce si spegne definitivamente, verrebbe di piangere per tutti gli amori disperati, per la tragedia dell’uomo che non vorrebbe mai lasciare la vita, che ama e che è perduto, in un buio che chi non l’ha provato non lo può nemmeno immaginare.
Di monologo in monologo, ci spostiamo al Garage Vian, confortevole circolo Arci con banco, saletta e teatrino. Una programmazione fitta d’eventi anche nel resto dell’anno e la prossimità tra spettatore e interprete.
E’ qui che vediamo “Memoria del Vuoto” della compagnia Crab Teatro.
Pierpaolo Congiu, dopo il bel Cyrano visto qualche anno fa, si esibisce in un monologo coinvolgente e sentito, a suo agio nei panni del brigante Samuele Stocchino, leggenda sarda e protagonista del romanzo di Marcello Fois, “Memoria del vuoto”.
L’attore torinese, di origini sarde, ci trasporta nelle tinte fosche di una storia di sangue e ribellione, un destino segnato che inizia da un bambino nato con il cuore a forma di lupo. La lingua di Congiu è ritmata sulle cadenze del dialetto sardo senza indulgere in facili folklorismi, il racconto è serrato con aperture ben posizionate e l’accompagnamento delle video-animazioni di Luca Ferrara, bravo nel restituirci ambienti da fiaba del terrore, fatti di plaghe notturne, forre e pleniluni – forse con qualche tratto di didascalismo. L’adattamento perde qualcosa della sua energia nel finale, ma nel complesso la bravura di Congiu lo mantiene intenso in tutte le sue parti.
“L’ultima danza del secolo”, della compagnia Garrone Martelli di Torino, è uno spettacolo imperniato sulla danza butoh, danza giapponese di costrizione corporea, decostruzione, passaggio dal movimento minimale al frenetico: un ballare equiparabile a un soffrire.
Matthias Martelli, travestito da vecchio in vestaglia, punteggia le danze di Francesca Garrone con citazioni come “Ninna nanna della guerra” di Trilussa o “A las cinco de la tarde” di Lorca, senz’altro apparente scopo che quello di far prendere fiato alla danzatrice.
Celebri musiche vengono ballate al modo butoh, con effetto straniante, come nel caso del “Valzer n.2” di Shostakovich, interpretato con un moto tormentoso.
Incantevole il primo intervento della Garrone con maschera antigas. Il corpo nudo della danzatrice, in una torsione di tendini e muscoli, farebbe la gioia di uno scultore michelangiolesco, così come le pose e le ripetizioni dispongono lo spettatore al tour onirico.
Ma le danze e le invenzioni sceniche ci sono sembrate via via meno incisive.
Al De Amicis, ai piedi della collina torinese, si mette in scena “Leonce und Lena”, bellissimo testo di Buchner.
Il principe annoiato si deve sposare, ma quale vita vale la pena di vivere? Noia vs. ozio, insipienza contro pienezza. Una favola grottesca, a tratti esilarante, in questa resa volutamente “rozza”, tutta allo scoperto, che riesce bene proprio nei momenti in cui gioca più su se stessa e sui suoi meccanismi.
Bella la verve di Angelo Tronca, regista e protagonista nei panni di Leonce. Meno convincente la sua spalla Valerio, interpretato da Cecilia Bozzolini.
La mescola migliore dello spettacolo si ritrova nella scena in cui Valeria Camici, nei panni di un’amante del principe Leonce, incede verso di lui interpretando “Un’emozione da poco” della Oxa, per essere poi demolita dalle arguzie ciniche dell’amato.
All’Unione Culturale Franco Antonicelli vediamo “Il Dritto e il Rovescio”, “Studio per una tragedia dell’arte per tre pulcinelli”.
In scena una triangolazione di caratteri primari: la giovane donna Cocotta, la vecchia-madre Zezza, e l’uomo, il Cetrullo, che si agita nell’insanabile dilemma tra l’una e l’altra – come si dice in un bellissimo monologo che Mauro Piombo recita al suo dio, la statua di un Gallo Cedrone, spalla e scorcio di una dimensione più ampia, cosmica, sopra i lazzi e i repertori.
Piombo trascina la recita in un saliscendi di toni, denunce, istanti lirici, cialtronerie, come salgono e calano le maschere sui volti degli attori.
Accompagnano Pagano, ben affiatate, Arianna Abbruzzese (Zezza) e Marta Ziolla (Cocotta), vivaci entrambe.
Si ride, lo spettacolo scorre ritmato, schietto. Piombo riflette, dice: “Io il pubblico non lo voglio triste, lo voglio far ridere. Come nella vita, chi vive triste muore senza troppi rimpianti, mentre chi prova a esser lieto, quando arriva il momento è una tragedia. Perché nella vita è talmente facile essere tristi, non manca occasione, che il difficile è l’allegria e come si riesce a stare allegri”.
Il finale dello spettacolo è l’invecchiare e poi l’attesa dell’autobus della morte, che tutto si porta via, compresa la commedia.
Al Cap10100, sulla riva del Po, “L’invenzione senza futuro”, di Tedacà / Offrome / Compagnia dei demoni, è uno spettacolo sui fratelli Lumière.
L’idea è quella di raccontare la storia dell’invenzione del cinema e di farlo con la vicenda intima dei due fratelli Auguste e Louis Lumière.
Ne viene uno spettacolo incantevole, che richiama con le possibilità teatrali il cinema degli albori e si impasta poi, via via, di citazioni e rimandi cinematografici, quasi a voler comporre un grande riassunto e caricare quell’invenzione senza futuro di tutto il futuro che conosciamo.
I meccanismi del cinema sembrano ritrovarsi nella scansione delle scene, nei modi in cui la vicenda si dispiega, tra flashback con la madre, prime delusioni, incontri amorosi e poi nelle musiche, elemento portante dello spettacolo, che richiamano temi celebri della cinematografia riarrangiati al piano, musiche composte da Giorgio Mirto ed eseguite da Francesco Villa.
Divertenti e poetiche le scene che richiamano le antiche proiezioni, in cui gli attori, Federico Giani, Celeste Gugliandolo e Mauro Parrinello, nell’intermittenza luminosa, danno prova di ottime capacità mimiche ed espressive.
Sempre al Cap10100, la performance “008” di Vittoria De Ferrari Sapetto.
Si lascia una moneta in cambio di un numero e si viene condotti in una piccola stanza illuminata da una luce cruda. Un rettangolo segnato a terra delimita lo spazio, una donna in burqa marcia dentro il perimetro mentre il pubblico assiste lungo le pareti. La donna mostra il volto, poi progressivamente lo nasconde ed espone il corpo nudo marchiato da numeri.
Lo spettatore cerca il proprio numero tra quelli che vede, è curioso di sapere a quale parte del corpo corrisponde. E’ come assistere all’asta di una schiava o meglio a un’asta di macelleria, di quarti di carne.
La performance fa in modo di frazionare progressivamente lo sguardo, condurlo da un volto a un pezzo di corpo. E la nudità senza testa che si dimena divisa in lotti cifrati è particolarmente efficace; lo spettatore si sente come un mercante inconsapevole, responsabile di una pena e di un sopruso che in qualche modo riconosce.
All’uscita, chi ricorda a quale parte del corpo della donna corrispondesse il numero assegnato riceve indietro la moneta: lo spettatore, che pure avrà difficilmente perso la corrispondenza tra il numero ricevuto e il corpo segnato, viene in questo modo richiamato al nocciolo di quanto ha appena provato.
In conclusione, questo Tofringe ci è sembrato particolarmente riuscito poichè, oltre al programma composito (seppur numericamente un po’ meno ricco del passato), ha mantenuto e rafforzato la fusione con il tessuto urbano della città, permettendo ai suoi spettori una duplice e felice scoperta: l’intimità di spazi inconsueti e raccolti e quella di compagnie, giovani e meno giovani, che hanno offerto prove di qualità difficilmente fruibili nei circuiti degli Stabili, dotate di quel carattere al contempo spigliato e ruvido della prova in corso e della sperimentazione.
Possiamo attendere con fiducia la prossima edizione.