“Se le menti vivono in corpi, se i corpi vivono in vestiti, e poi in stanze, e poi in edifici, e poi in città, hanno anche una pelle finale? E quella pelle si percepisce? È l’orizzonte. E arte significa cercare di immaginare quel che c’è oltre l’orizzonte”.
Sono le parole con cui Antony Gormley, artista britannico, descrive la sua installazione site-specific del 1995 “Another Place”, un centinaio di statue umane in ghisa, parzialmente immerse sul bordo del mare alla foce del fiume Mersey, vicino Liverpool.
Ed è proprio lo scultore Antony Gormley ad aver disegnato le scene delle due prime nazionali “Noetic” ed “Icon”, spettacoli dall’ambizioso respiro filosofico che hanno inaugurato sotto i migliori auspici l’edizione 2018 di Torinodanza al Teatro Regio, con il debutto della nuova direttrice artistica Anna Cremonini, nonché l’inizio di una promettente collaborazione triennale del festival con il coreografo belga di radici marocchine, Sidi Larbi Cherkaoui.
Vincitore di due Laurence Olivier Award for Best New Dance Production, tre Ballet Tanz Awards come miglior coreografo (2008, 2011, 2017) e del Kairos Prize (2009), Cherkaoui firma nel 2014 con “Noetic” la sua prima esperienza con la Göteborg Operans Danskompani, la compagnia di danza del Teatro dell’Opera di Göteborg, cui seguirà due anni dopo la realizzazione di “Icon”, performance che affianca ai tredici danzatori di Göteborg, cinque danzatori della compagnia Eastman – traduzione del cognome arabo Cherkaoui – fondata da quest’ultimo ad Anversa nel 2010 e da lui diretta.
“Noetic” si apre sul ritmo energico e tribaleggiante delle percussioni, che scandiscono con afflato epico l’ingresso in scena dei 19 ballerini, giacca e cravatta per gli uomini, vestiti in pelle per le donne. Il nero degli abiti si staglia prepotentemente contro l’algido sfondo bianco ghiaccio, mentre l’insolito paesaggio sonoro, affidato alla Göteborg Orchestra su musiche originali del compositore polacco Szymon Brzóska, si distingue subito per ricercatezza ed eterogeneità rapsodica delle esecuzioni: le note orientaleggianti del flauto in bamboo si alternano al tamburo taiko, entrambi strumenti tradizionali giapponesi suonati dal vivo da Kazunari Abe, cui subentrerà nella seconda parte una lirica più minimale, quasi una mistica salmodia, della cantante Miriam Andersén, abilissima nello spaziare con disinvoltura dalle coinvolgenti ciaccone e dai fugati alla solennità dei versi in latino tratti da Platone e da Orazio.
Dal punto di vista della partitura coreografica, si assiste invece a una progressiva transizione da una tecnica più curvilinea, dominata da moti rotatori e fluidi, a un’espressività sempre più meccanica, dove la frantumazione del gesto sembra riprodurre la sequenza 0/1 del codice binario informatico: se infatti in una prima parte i movimenti dei danzatori, impegnati in figure spiraliformi e liquide coalescenze simili ad anarchici stormi che si dilatano e restringono come aggraziate volute di fumo, sono contrassegnati da una marcata sinuosità e da una leggiadria che infonde nello spettatore un’istantanea impressione di eterea ariosità; il secondo tempo della performance è caratterizzato da una cinetica più spigolosa, linee spezzate, convulsi incroci ortogonali di braccia e gambe che evocano le composizioni astratte di Piet Mondrian.
E’ allora che a riequilibrare la frattura stilistica e ad interrompere la rêverie cibernetica intervengono le lunghe aste flessibili in fibra di carbonio concepite da Antony Gormley, che dichiara di essersi ispirato alla cristallografia molecolare nel suo tentativo di resa tridimensionale dei legami chimici e dei reticoli atomici che si celano al nudo sguardo. Manovrando queste sorte di antenne come protesi artificiali, i ballerini ingaggiano con lo spazio un duetto di scherma, infilzandolo e sezionandolo, sagomando mutevoli forme geometriche interconnesse che danno vita a una caleidoscopica e al contempo sobria psichedelia visiva.
A questa proliferazione verticale di architetture filiformi e precarie impalcature, si affianca una propagazione concentrica di sfere, globi e rosoni, sottili mulinelli e arcani astrolabi, fugaci esoscheletri che incastonano i danzatori come aureolate pietre vive in esili bolle di sapone.
Attraverso questa raffinata filigrana ottica, che mira a rendere visibile l’apollinea ed immanente natura matematica della realtà fenomenica, Cherkaoui cerca di ridestare la facoltà noetica dello spettatore, la sua capacità istintiva di intuire – o forse sarebbe meglio definirla una compulsione mentale a fabbricare – le strutture e gli schemi profondi che regolano il cosmo. La noesi è proprio questa facoltà di comprensione immediata, quasi epifanica, del reale, che precede ogni giudizio, argomentazione o deduzione logica.
Per spiegarne il funzionamento Cherkaoui non esita ad integrare la sua drammaturgia con inserti recitati, che attingono alle più disparate teorie scientifiche, scomodando – tramite visionari voli pindarici del divulgatore venezuelano transumanista Jason Silva – persino la controversa bobina toroidale di Marko Rodin e la Matematica dei vortici di Randy Powell.
Lo spettacolo sembra giocare consapevolmente con il paradosso cognitivo del pensiero matematico, che consiste proprio nell’impossibilità di accesso concettuale diretto agli oggetti di cui tratta, e nella necessaria mediazione semiotica, che trova perciò nel felice connubio di danza e arte visuale un nuovo sistema segnico, un registro rappresentativo in grado di portare in stato di emersione dinanzi agli occhi dello spettatore la segreta trama numerica del mondo.
Se in “Noetic” l’Uomo è dunque colui che cerca di trascendere i propri limiti sensoriali e intellettivi affinando quelle porte della percezione rese celebri dai versi di William Blake, e poi di Aldous Huxley e Jim Morrison, in “Icon” – termine che richiama i dipinti sacri su tavola della cultura bizantina e slava – l’Uomo che Cherkaoui si propone di raffigurare è quello che plasma il contesto che lo ospita, investendolo di senso e di sacralità, e lasciandosi forgiare da esso in un’operazione di reciproca metamorfosi.
Sul palco, calato nell’atmosfera rituale ed ancestrale, quasi biblica, di un’ambientazione desertica, è allestita una grandiosa mitopoiesi da cui scaturiranno idoli, mostri e simulacri, che si avvicenderanno in un’inarrestabile dialettica di creazione e distruzione: una riflessione sulla facile intercambiabilità dei culti, religiosi o laici che siano, ma anche sull’arbitrio interpretativo cui soggiace, per suo stesso statuto ontologico, ogni immagine.
Antony Gormley mette a disposizione dei danzatori ben 3,5 tonnellate di argilla malleabile, la creta primigenia che secondo l’ebraismo partorì Adamo, e la dissemina in mattonelle sul pavimento o raggrumata in piccole statuette votive, pronte ad essere disfatte e ricomposte dai ballerini in un’infinità di identità-maschere, copricapi, armature, totem antropomorfi e persino autotumulazioni.
Come l’argilla, gli uomini si lasciano imprimere e modificare dall’esperienza, sono lastre fotografiche infinitamente impressionabili che, come insegna l’epigenetica, si adattano alle mutazioni del contesto.
“Icon” consiste proprio nel dialogo dell’umano con questo muto attore inorganico, l’affermarsi titanico dell’homo faber sulla plasticità della materia bruta e sulle sue resistenze a una forma che la stabilizzi e conservi l’impronta del suo artefice, il quale corre il rischio costante di essere riassorbito e reificato nel processo. Sul palco si svolge l’allegoria dell’uomo che “progetta dunque diventa”, reintrecciando continuamente la propria autonarrazione esistenziale.
Il passo dei danzatori cede dunque alla forza di gravità del suolo e dimentica la levità di “Noetic”, privilegiando contorsionismi degli arti e dei busti e una morbida rotondità del gesto. Un tappeto sonoro ipnotico, misterico-iniziatico, accompagna le mobili concrezioni di corpi che si aggregano in effimere masse, come dune cangianti modellate dal vento, e si uniscono in suggestivi momenti corali ondaliformi, che di rado si sfilacciano in escursioni soliste sul boccascena.
“Icon” vanta un sincretismo di tradizioni musicali persino più sorprendente di “Noetic”, un nomadismo melodico il cui spettro abbraccia antiche canzoni siciliane, abruzzesi, albanesi, giapponesi, e un ingegno scenografico forse ancor più sofisticato nella presenza opaca dei musicisti dietro un fondale di tulle bianco, che conferisce loro l’aspetto di fantasmatico ologramma.
Nume tutelare di “Icon”, come già di “Noetic”, è di nuovo il futurologo Jason Silva che – citando questa volta Terence McKenna, uno dei padri della controcultura degli allucinogeni americana – risale alle origini del pensiero speculativo, a quella spontanea meraviglia di fronte alla bellezza del mondo da cui è sgorgata la prima scintilla filosofica, e invita lo spettatore a focalizzare la propria attenzione per rieducarsi all’inatteso e lasciarsi sorprendere dagli insospettabili miracoli del quotidiano.
Per comunicare le proprie verità, la danza di Cherkaoui rinuncia volentieri all’ermetismo tipico del suo codice espressivo e si arrende alla fascinazione della parola: la accoglie armonicamente nella propria grammatica fisica, senza tuttavia rendere il movimento schiavo del discorso. Il suo è un teatro-danza di idee, multidisciplinare, assertivo, che si serve della voce per esplicitare la propria prospettiva sul mondo, e che non teme di osare un’indagine antropologica e sociologica sul presente per mezzo di una coraggiosa ibridazione di linguaggi. Il denso humus teorico che alimenta le opere di Cherkaoui rende manifesta la sua volontà di lasciar affiorare senza ambiguità il proprio immaginario culturale e profilo intellettuale, ma soprattutto la propria missione di svelamento, in senso shopenhaueriano, dell’essenza noumenica dell’hic et nunc, del cuore riposto delle cose.
NOETIC
Prima italiana al Teatro Regio il 10 settembre 2018
Coreografia: Sidi Larbi Cherkaoui
Interpreti: 19 danzatori
Musiche originali: Szymon Brzóska
Scene: Antony Gormley
Costumi: Les Hommes
Drammaturgia: Adolphe Binder
Luci: David Stokholm
Musica dal vivo: Kazunari Abe / Canto: Miriam Andersén
Prima rappresentazione: 8 Marzo 2014 – The Göteborg Opera, Svezia
durata: 55′
applausi del pubblico: 5′
ICON
Prima italiana al Teatro Regio il 10 settembre 2018
Coreografia: Sidi Larbi Cherkaoui
Interpreti: 18 danzatori (13 da GöteborgsOperans Danskompani, 5 da Eastman)
Scene: Antony Gormley
Costumi: Jan-Jan Van Essche
Luci: David Stokholm
Suono: Joachim Bohäll
Drammaturgia: Antonio Cuenca Ruiz
Musiche dal vivo: canto e strumenti tradizionali a corde giapponesi (sanshin) Anna Sato; canto e arpa Patrizia Bovi; chitarra, percussioni e pianoforte Gabriele Miracle; strumenti tradizionali giapponesi flauto (shinobue) e percussioni (taiko) Kazunari Abe; strumenti tradizionali coreani a corda (geomungo e yanggeum e tatégoto) Woojae Park.
Una produzione: GöteborgsOperans Danskompani/Eastman
durata: 1h 05′
applausi del pubblico: 5′
Visti a Torino, Teatro Regio, il 10 settembre 2018
Prima nazionale