“Chi vuole vincere impari prima a perdere,
chi vuol tenere prima deve sapere cosa lasciare,
chi vuole insistere impari prima a cedere,
chi vuole amare prima deve imparare a rinunciare”.
(da Fabi Silvestri Gazzè, Come mi pare)
Sembrano versi scritti per Isabella, quelli dei “festosi padroni” del cantautorato italiano. Per lei, novizia tenace, donna provvidenziale. L’unica disposta a mettere da parte il proprio rancore, a prostrarsi per amore di un’amica dell’ultim’ora, quella Mariana/Sara Drago sua partner in (la)crime; la sola pronta a perdere un bene tattile (un fratello in carne ed ossa, sangue del proprio sangue), a lasciarlo andare verso la gogna – non senza tormento, si rammenti – per far trionfare un’integrità più grande.
Isabella sa insistere, persuadere: ma la sua non è mai una retorica avvocatesca (alla Porzia per intenderci). La invera la bontà del suo animo, la sincerità del suo cuore. Isabella non è, d’altra parte, o almeno non è solo, una martire. Il che la renderebbe una figura un po’ monocorde e algida. Ella sa adirarsi, concertare (opportunamente guidata dal Duca), agire.
Una mosca bianca, insomma, in una Vienna che dà la nausea. Una Vienna corrotta che “spuzza” di noi. E Rebecca Rossetti, negli abiti huntiani della suorina, ne è un’eccellente ipostasi.
Si diceva della contemporaneità di questo dramma: mettere in scena Shakespeare è sempre un po’ “andare sul sicuro”. È tuttavia da riconoscere la notevole abilità registica di Jurij Ferrini nell’aver saputo offrire una scrittura realmente “presente”. Sarà forse scontato dirlo, ma repetita iuvant: declamare “blank verses” in “blue jeans” non basta certo per avvicinarli al pubblico (invero, qui si tratta di abiti fumosi, da cosca mafiosa di Little Italy).
A sostenere la sempre ardua trasposizione di codici e linguaggi è in primis la fluente traduzione – meglio dire riscrittura visto l’alto valore artistico – del sommo Cesare Garboli, commissionata più di vent’anni fa dallo stesso Stabile Torinese per una regia ronconiana. Interviene poi anche la recitazione agìta e sincera dei dodici attori. Insomma, per dirla con Jan Kott, Ferrini ha reso “nostro contemporaneo” questo suo Shake-scene (letteralmente “scuoti scene”, come lo apostrofava Robert Greene, ma qui più che altro un “rompi scene”, tenuto conto dei siparietti metateatrali attraverso cui il Duca sornione –con occhiolini e domandine – ammicca al pubblico).
Del “contemporaneo” si è discorso. “Nostro” perché dietro il Vicario Angelo – che Matteo Alì rielabora al di là del deprecabile stereotipo, restituendocelo come un uomo a tutto tondo, fatto di molte ombre sì, ma anche di una qual certa umanità, tanto che non lo si riesce ad odiare – dietro quel concussore appunto, ci siamo noi con i nostri sotterfugi, le nostre continue deroghe alla morale, la nostra sete di potere.
Ma né Shakespeare, né tantomeno questo allestimento (in scena a Torino fino al 18 dicembre) desiderano proporci un mattone allegorico di buona condotta: qui ci si diverte, si ride (anche quando “non si dovrebbe”: ad esempio, nel momento in cui Isabella grida al fratello, pronto a tutto pur di uscire dal carcere, «Io ti ripudio: muori!»); si prende coscienza delle proprie “deformità”, messe in scena, più che alla berlina, dagli attori.
La critica, che da sempre ama “spaccare il capello in quattro”, si è a lungo arrovellata andando alla ricerca della categoria più atta ad ingabbiare questa problematica dark comedy del 1603.
È in effetti un’“insalata di mescolanze”, che si permea del ritmo sincopato e grottesco della vita. Umorismo, ironia, tragico, rappresentano il viluppo interiore dell’uomo shakespeariano. E, in fondo, di ogni uomo.
Angelo Tronca/Lucio («giovanotto stravagante») ha pronunciato nell’incontro a Retroscena, lo scorso 30 novembre, una strenua peroratio ad comicum: «Più volte sento aleggiare come un fumo velenoso il fatto che la comicità sia inferiore, di basso livello. Sono soprattutto gli intellettuali, i Soloni del teatro – spettatori e registi – a propinare questa minestra. Coloro che ti dicono: “Beh, tanto lo sai fare. Per te è facile”. Ecco, non è facile per niente. Io penso che la comicità sia una delle forme d’arte più alte che possediamo: la comicità non è soltanto far ridere, ma creare – come nella poesia – un cortocircuito logico. Si prendono due sfere semantiche e le si fanno cozzare così fortemente da produrre il rovescio della previsione, che si sfoga poi nella risata. È uno dei regali più belli [e liberatori, n.d.r.] che gli autori possono farci». «Ed è anche un gesto di grande coraggio», glossa Ferrini.
Dalla messinscena traspare un madido artigianato attorico, grazie alla solida tecnica degli interpreti e alle virtù di capocomico di Ferrini – nonostante egli ripudi l’etichetta – da sempre fautore di un pregevole “teatro d’attore”.
Oltre al regista, la Rossetti, Alì e Sara Drago, compaiono in scena Gennaro Di Colandrea nei panni del buon braccio destro Escalo, il frivolo Claudio di Raffaele Musella, l’ottimo Lucio di Angelo Tronca (che si mostra ora scanzonato nei confronti del Duca travestito, ora sinceramente impietosito dalla sorte dell’amico, e a cui alla fine toccherà in sorte una «bagascia») e il verace ruffiano Pompeo/Michele Schiano di Cola, depositario delle tradizionali massime da fool.
A chiudere il cerchio: Lorenzo Bartoli/Bargello (Isabella in miniatura), Elena Aimone (protagonista di alcuni camei nelle vesti di Madama Sfondata prima e di una suora poi) e infine i simpatici Francesco Gargiulo (nei panni del dislessico Gomito) e Marcello Spinetta (tra gli altri, l’afono e stralunato Schiuma), che fanno impazzire il povero giudice.
Menzione conclusiva merita l’efficace scenografia di Carlo De Marino. Attori nello spazio vuoto in un teatro povero? Non proprio. Il decor è minimale, è vero, ma comunque di grande potenza evocativa. Nell’apparato sta già scritta l’intera trama: si tratta di una triplice parete su cui si proiettano le luci violacee di Lamberto Pirrone. L’atmosfera è quella della suburra felliniana di “Satyricon”, un postribolo moderno, su cui si stagliano immagini di Banksy e leitmotiv aforistici: “Justice and compassion”. Giustizia e grazia.
Al pubblico l’ardua sentenza: «La cosa bella è che si viene a teatro, ci si siede e ci si appassiona ad una storia». Una bella storia, cucita così, su misura.
MISURA PER MISURA
di William Shakespeare
traduzione di Cesare Garboli
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Gennaro Di Colandrea, Sara Drago, Francesco Gargiulo, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca
regia e adattamento Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gian Andrea Francescutti
regista assistente Marco Lorenzi
foto di scena Bepi Caroli
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
durata: 2h 40’ (con intervallo)
applausi del pubblico: 5’ 03’’
Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 22 novembre 2016
Prima nazionale