Mentre si aspetta di entrare nella parte inferiore dello stesso edificio che ospita, pochi metri più su, gli spazi consacrati del Teatro Caio Melisso, dai nugoli di ragazzi che frequentano quotidianamente questi spettacoli arrivano all’orecchio molte lingue diverse: la maggior parte di loro ha poco più di vent’anni e chissà quante ambizioni da inseguire; qualcuno, con lo sguardo all’insù, in un teatro come il Melisso, sogna forse un giorno di lavorare; per qualcun altro, invece, la tradizione del teatro all’italiana dev’essere una sorta di feticcio da abbattere.
Nei giorni scorsi gli allievi dei corsi di regia e di recitazione del secondo anno dell’Accademia Silvio D’Amico sono stati alle prese con degli studi su Sarah Kane, intitolati “Neve nera”. Tra questi, abbiamo avuto l’opportunità di vedere quello basato sul testo forse più famoso della drammaturga simbolo dello «in yer face theatre», ovvero “Psicosi delle 4 e 48”.
Dirette da Vittoria Sipone, in scena c’erano Federica de Benedittis, Maria Pilar Fogliati, Lucrezia Gagnoni, Francesca Pasquini, Giulia Salvarani e Giuliana Vigogna.
Un paio d’anni fa ebbi la fortuna d’assistere all’interpretazione di un’attrice di grande spessore come Elena Arvigo, capace di dare alle due principali forze psichiche del testo, l’isteria e la lucidità, la stessa intensità recitativa. Stavolta invece il soggetto originario viene scisso fra cinque attrici: a turno, una di loro prende il ruolo dell’io centrale, quello pulsionale e doloroso, mentre le altre sono come scaglie della stessa coscienza, coreute che interrogano o giudicano impietose chi di volta in volta assume la guida dell’ex monologo.
La pluralità delle voci potrebbe essere l’antidoto ai rischi intrinseci di un testo così impegnativo e intriso di biografismo, come ad esempio quello di spingere troppo sulla violenza e la drammaticità, che sono la sostanza stessa del testo e non hanno certo bisogno di chissà quali amplificazioni sceniche. Invece, succede proprio il contrario: sia le scelte registiche sia buona parte di quelle recitative calcano i lati più duri del testo (vedi la scena in cui una della attrici è costretta a bere, fin quasi a vomitarli, dei liquidi colorati rappresentanti i medicinali), quelli che appunto starebbero benissimo in piedi da sé, finendo piuttosto per banalizzarli in un dolorismo d’annata.
Sembra venire da un’altra epoca, molto più attuale, “Romeo and Juliet post scriptum”, partito dalle latitudini scandinave della Malmö Theatre Academy e visto qualche giorno dopo la prova delle italiane.
Si tratta di un’invenzione arguta, ma soprattutto molto ben realizzata, della giovanissima Annika Nyman: in questo shakespeariano finale alternativo, il piano pensato da Romeo e Giulietta per ritrovarsi nella cripta e fuggire insieme ha successo.
I due archetipici innamorati si trovano faccia a faccia, costretti ad affrontare le conseguenze dell’amore, a progettare concretamente la fuga, ma soprattutto a trovarsi per la prima volta nella condizione di conoscersi davvero, perché – come ci ricorda il foglio di sala – «Romeo e Giulietta non hanno molte scene in comune: non si conoscono mai per davvero, ma esistono nelle reciproche fantasie, artefatti sognanti, promesse di salvezza».
La Nyman fa passare la più tradizionale delle storie d’amore sotto le forche caudine del tempo e della realtà, affrontando il tema della perfezione possibile solo come finitezza. E lo fa, come dicevamo, con grande inventiva e abilità di montaggio testuale; oltre che col sostegno registico di Fredrik Haller.
Giulietta e Romeo (Linda Kulle e Rasmus Luthander) si presentano sul palco come fossero due drughi appena usciti da Arancia Meccanica: la prima è seduta di fronte ad una piccola televisione che mostra, a mo’ d’immagine a circuito chiuso, il video di Romeo che uccide con la mazza l’unico possibile testimone del loro inganno.
Quando il ragazzo la raggiunge in scena, il testo entra subito nel registro parodico: Giulietta, che per la Nyman è una sorta di amazzone con frequenti crisi di ninfomania, vorrebbe saltare addosso a Romeo, il suo «Conan il barbaro», infoiata da cotanta violenza.
Anche nel resto della pièce, la poesia sublime con cui Shakespeare esprime l’attrazione fra i due è costantemente ribaltata in immediata attrazione fisica. Ma questo è nulla.
La frizione drammaturgica che orienta le peripezie del dialogo sta nello scontro fra la tentazione del compromesso (Romeo che vuole cercare perdono dai genitori, sperando in un matrimonio da loro legittimato) e la voglia un po’ hippie di fuggire da Verona e dalla civiltà, vivendo in piena libertà il proprio amore, anche a costo di versare altro sangue (la primitivistica Giulietta). Così fra i due si sviluppa ben presto un cicaleccio acido, fatto di frecciatine e tanti insulti («histerical fucking sissy», è uno degli epiteti più ossequiosi che Giulietta rivolge all’amato); ma, ben lungi da essere un semplice ribaltamento comico, il dialogo si sviluppa anche attraverso lunghi inserti psicanalitici, tramite cui Giulietta scevera i meccanismi emotivi della famiglia di Romeo, smascherandone con crudezza pinteriana le ipocrisie e le falsità.
Il distacco ironico della parodia si alterna alle tinte fosche di una situazione di cui i due innamorati sembrano prigionieri, attratti dal vortice nero del crimine e incapaci di gestire il proprio coinvolgimento: chi ama le serie televisive americane può farsi un’idea dell’atmosfera e dello humour nero del testo pensando a “Breaking bad”, ma anche al non sense di comedies come “Scrubs” o “Community”. All’influenza delle sceneggiature d’oltreoceano potrebbe forse ammiccare una delle tante battute di Giulietta, che accusa per l’appunto Romeo di comportarsi come in una soap opera americana.
Ma la verve della Nyman passa anche per i moltissimi riferimenti al testo originale, come quando Romeo abiura una delle delicate metafore shakesperiane: a lui, in realtà, gli uccelli fanno schifo, perché sono sporchi e gli ricordano la poca cura dell’igiene della madre quando era in depressione. Questi continui scivolamenti di senso sono attraversati da lampi espressivi che tengono sempre viva l’indagine psicologica: «Escaping digs a hole in reality».
Ora, in questo clima da tragicommedia, la soluzione che mi sarebbe sembrata più ovvia sarebbe stata un ritorno al finale originale: un parossismo da chiudersi con un suicidio di coppia. Invece la Nyman si mostra anche qui una drammaturga già brillante e navigata; ci ritroviamo ad applaudire, con qualche imbarazzo, un bacio che sembra davvero lunghissimo.
Una volta tanto le convenzioni teatrali vengono messe in discussione non per un gioco autoreferenziale, ma facendoci sentire sulla pelle la distanza da ciò che accade in scena, come se davvero a un certo punto Romeo e Giulietta avessero raccolto tutto il loro coraggio e fossero riusciti a correre via oltre ogni ostacolo, oltre il nostro stesso stare qui a guardarli battendo le mani, come se non sapessimo che un amore appena nato merita ben più attenzione di un applauso.