Dal territorio della fantasia e del fantasmatico, all’eccitazione febbrile che nasce dal desiderio. E poi il buio delle periferie, quello delle grandi città e quello dell’anima. E ancora, le contraddizioni della provincia italiana.
L’edizione 2017 di Tramedautore, la tradizionale rassegna di teatro internazionale che si svolge al Piccolo di Milano diretta quest’anno dal regista Benedetto Sicca, ha presentato una grande varietà di temi. Le opere provenienti da Italia, Belgio, Gran Bretagna, Svezia e Olanda hanno evidenziato la fragilità dei valori dell’Europa ricca o dal passato imperialista, quella che ancora adesso guida un continente “a due velocità”.
“Physics and Phantasma”, di e con lo svedese Iggy Lond Malmborg, è uno spettacolo che si realizza nella mente dello spettatore, ma è tutt’altro che evanescente. L’interazione con il pubblico è la chiave di volta del lavoro. Malmborg si confronta con una platea di giovani e meno giovani, trascinandoli in una dimensione di compartecipazione all’atto teatrale, capace di superare la differenza linguistica.
La scrittura scenica segue un sentiero irto, passando dalla comicità e dall’atmosfera lieve dell’inizio a un clima cupo, fino all’esplosione del dramma: la rievocazione di uno stupro. La drammaturgia di Erik Berg, Maike Lond Malmborg e Johan Jönson indaga il bisogno di fantasia insito nell’essere umano. L’immaginazione è una capacità che va oltre il bene e il male. È il punto di partenza del desiderio ed è necessaria per completare il processo di formazione della personalità. Ma è anche la base di ogni potenzialità rivoluzionaria e del pregiudizio.
In “Physics and Phantasma” il fantastico diventa strumento di difesa e analisi per la comprensione di un mondo inconsistente. Un percorso in cui vengono esplorati i sentieri della percezione e dell’immaginazione umana con leggerezza e profondità. A condurre il gioco teatrale è un attore giovane e carismatico. In scena pochi oggetti e un forte potere evocativo: una palla d’argento, dei ventagli di carta, fiocchi di neve finta. Un sapiente gioco di luci, e l’ingresso nel mondo fantasmatico è servito.
Protagonista di “Fear and desire” (progetto e regia di Gaia Saitta, coreografia Julie Anne Stanzak) è invece la poesia, che si traduce in danza e in improvvisazioni teatrali. In scena un gruppo di attori provenienti da Paesi ed esperienze artistiche diverse s’incontra e racconta di sé. Protagonisti ben definiti: romantici, passionali, timidi, forti. Personalità vivide, che modulando diversi registri regalano frammenti delle proprie esistenze. Ricordando il desiderio più grande e la paura più profonda della loro vita, lasciano trapelare l’eccitazione febbrile che il desiderio porta con sé. Sono ricordi così vividi e naturali che spesso virano verso il grottesco. Le citazioni sono preziose e spaziano da Pina Bausch a Emma Dante. I corpi diventano drammaturgie capaci di superare lo scarto linguistico causato dalla babele delle improvvisazioni e i momenti d’impasse. Anche l’uso delle luci di scena è declinato in toni poetici e lentamente conduce a un finale catartico e liberatorio. Poesia, comicità, tenerezza sono le basi del terreno su cui danzano e recitano gli artisti.
La famiglia, primo nucleo della società (si diceva un tempo) forse è in via di estinzione.
“Opera sentimentale” (di Camilla Mattiuzzo, con Matteo Angius e Riccardo Festa – entrambi anche alla regia – e Woody Neri, testo vincitore di NdN – Network Drammaturgia Nuova) ce ne mostra i brandelli in seguito a un’esplosione interna. Sono rigurgiti di rancore, sentimenti frammentati difficili da ritrovare e ricostruire nelle macerie di una famiglia violenta e stravagante. In scena tre attori in splendida forma interpretano tre fratelli riuniti per il funerale del nonno, che di lì a poco si scoprirà essere morto in circostanze sinistre. Tre protagonisti, un fondo su cui vengono proiettate immagini e didascalie per scandire il racconto. Aleggia un’atmosfera funebre e grottesca. Interpretando a turno i vari protagonisti della sgangherata famiglia, i tre attori ricostruiscono un puzzle fatto di tragedie familiari, rimpianti, cinismo. Con un linguaggio politicamente scorretto e un abbondante uso del turpiloquio, emerge la storia di un amore “tradizionale” deflagrato, di cui non è ancora sopita la passione. La coppia si ama ancora nonostante i tradimenti, nonostante il fallimento del ruolo genitoriale di fronte a un figlio antisemita, uno non troppo intelligente e il terzo troppo fragile. L’ipocondria e la meschinità, il lacerante peso dei ricordi conducono al monologo finale, recitato da una voce registrata. Una disanima dolceamara di tutto il bene e di tutto il male del mondo.
Malgrado i riconoscimenti e la convincente prova attoriale, lo spettacolo appare, a tratti, drammaturgicamente enigmatico.
Chissà se qualche studente avrà avuto da ridire o avrà storto il naso dopo aver visto “Todi is a small town in the centre of Italy” scritto e diretto da Liv Ferracchiati, dramaturg Greta Cappelletti, con Caroline Baglioni, Michele Balducci, Elisa Gabrielli, Stella Piccioni, Ludovico Röhl. Lo spettacolo è uno sguardo impietoso su Todi e sull’intera provincia italiana.
A raccontare un microcosmo attraverso la vita dei suoi abitanti, ci aveva già pensato Edgar Lee Masters, narrando in versi le vicende degli abitanti di Spoon River e provocando non pochi malumori tra i cittadini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield nell’Illinois per il ritratto impietoso in cui tutti pensavano di essere fin troppo riconoscibili.
A dispetto del titolo, fin troppo deferente verso Albione, la pièce di Ferracchiati analizza la vita di provincia. In scena quattro protagonisti tutti tuderti, amici di vecchia data. Hanno maturato diverse esperienze fuori, dunque sono consci dei limiti della provincia. Tutti seguono un sentiero già definito, anche se ognuno cova sentimenti a volte contrastanti: livore, rabbia, oppressione, ma anche, sotto sotto, attrazione e affetto verso il luogo natio.
I loro dialoghi sono intramezzati da un video-documentario (Brando Currarini e Ilaria Lazzaroni) in cui diversi cittadini tuderti rispondono alle domande: “Come si vive in un piccolo centro in cui tutti conoscono tutti? Cos’è che a Todi è “meglio non fare”?”. La realtà è più comica e grottesca della finzione e le risposte raccolte nella clip rivelano non solo la chiusura e il pregiudizio di cui è pervasa la piccola comunità giudicante, ma anche una candida e cruda ingenuità che a volte degenera nell’ignoranza, nel razzismo e nell’omofobia. Todi diventa specchio dell’Italia, campanilista e provinciale. A legare i due piani, finzione e realtà, è il documentarista, che con il punto di vista dello straniero esplora la massa per poi concentrarsi sulle quattro personalità a lui più affini.
“Todi is a small town in the centre of Italy” è una pièce in cui si riconosce una regia solida e una leggerezza pensosa. Sul palco quattro interpreti in parte e un gioco teatrale e sociologico ben riuscito. La drammaturgia è agile, i piccoli nodi del dramma vengono abbozzati ma non sviluppati, lasciando spazio all’interpretazione del pubblico.
Difficile commentare, infine, il lavoro della compagnia olandese Wunderbaum, “Looking for Paul”: una provocazione sulla provocazione, un ribaltamento del ribaltamento.
Il lavoro prende le mosse dalla statua intitolata “Santa Claus”, commissionata al controverso artista americano Paul McCarthy dal comune di Rotterdam. Il soggetto è un simpatico Babbo Natale che assomiglia a uno gnomo che assomiglia a nonno Puffo. Tiene in mano un oggetto appuntito che assomiglia a un pino natalizio che assomiglia a un dildo anale. In scena c’è una compagnia olandese incaricata di approfondire la poetica di McCarthy, autore tra l’altro di una scultura che raffigura il grottesco accoppiamento tra George W. Bush e un maiale. La finzione scenica è impostata sul confronto tra la compagnia, che mostra una certa deferenza verso l’artista, e una giovane abitante di Rotterdam, Inez, indignata che l’opera sia collocata giusto nella piazza su cui si affacciano la sua casa e il negozio di libri che gestisce. Inez lamenta inoltre che il messaggio dell’artista sia una denuncia scontata e velleitaria del nostro stile di vita occidentale votato al consumismo e all’ipocrisia, e che i suoi soldi di contribuente vadano a finanziare opere di dubbi valore estetico e moralità.
Risultato? Una sorta di nemesi all’incontrario. Tutti i protagonisti, Inez inclusa, si trasformano. Come zombie assetati di sangue, come automi anelanti junk food e sesso, mettono in scena senza metafore pratiche feticiste che vanno dalla coprofagia alle più torbide perversioni. Esagerazione e ridondanza spadroneggiano. Furoreggiano anche le reazioni del pubblico: chi trova lo spettacolo geniale (pochi); chi pare bollarlo come vomitevole (la maggior parte, ma in sala ci sono un po’ di liceali).
Sicuramente l’arte fa discutere. Ma qual è il limite tra provocazione e volgarità? Quando la volgarità diventa pletora, cliché, maniera, ovvietà? Esiste nell’arte il buon senso, o il senso della misura? Sono interrogativi non nuovi, a partire – per citarne uno – dai controversi spettacoli di Rodrigo Garcia. Tuttavia ormai siamo avvezzi a istigazioni che forse sconvolgono solo gli inermi, gli imberbi o i paolotti. Qualcuno si rivolta, a qualcun altro si rivolta l’apparato gastrico. Ma in sostanza quest’arte non mina il nostro appetito: cuore, stomaco e cervello ristagnano placidamente. Placidamente indifferenti.