Danio Manfredini e tre studi per una crocifissione dell’esistenza

Danio Manfredini
Danio Manfredini
Danio Manfredini (photo: corteospitale.org)

Sono tre i personaggi portati in scena da Danio Manfredini, per altrettanti monologhi che hanno come denominatore comune il male di vivere del nostro tempo.
I “Tre studi per una crocifissione” mutuano il titolo da un’opera di Francis Bacon, un trittico in cui tre figure evocano la propria condizione drammatica di soggetti appartenenti al mondo contemporaneo.
Da qui la trasposizione teatrale affrontata dall’artista cremonese.

Il primo a varcare la scena è, presumibilmente, un malato di mente. Manfredini biascica le parole e trascina i piedi. Colloquia talvolta col pubblico, talvolta con ‘la mamma’.
La scarsa mobilità di parola e movimento rispecchiano quella che viene descritta come una vita mai vissuta, solo subita, senza coraggio, senza motivazioni vere e profonde. Tuttavia il personaggio non evoca rabbia ma pietà, anche e soprattutto perché non si vede una via d’uscita alla sua situazione. Ingabbiato prima dalla propria mente e poi in un istituto di cura, non fa altro che continuare a vegetare dentro a giorni senza colore, scipiti come la pietanza che si appresta a consumare (cui deve appunto aggiungere il sale), o come l’acqua che beve (che dev’essere tonificata da una bustina di vitamine).

Il secondo personaggio, ispirato al transessuale Elvira del cineasta tedesco Fassbinder, è un uomo che ha deciso di non essere più tale. Manfredini, con parrucca, abitino di maglia e tacchi, in questo monologo non altera più di tanto la sua voce, che rimane neutra per rivolgersi sia ad un fantomatico uomo che l’ha lasciato sia, ancora, a ‘la mamma’.
Di nuovo una storia di solitudine, di amore cercato affannosamente, anche a costo di essere privato, in questo caso, della sua mascolinità, e tuttavia ripagato con incomprensioni, silenzi, umiliazioni. Arrivato al capolinea dell’umana sopportazione, il protagonista si siederà e, con calma, ingollerà pasticche alternate a sorsi di alcool, pronunciando l’estrema sentenza: “Non è vero che il suicida detesta la vita. Solo… non ne sopporta certe situazioni”.

Introdotto da parecchi minuti di ballo ritmato ed energico su musiche di Bach, il terzo personaggio vede un Manfredini trasformato in un uomo dal forte accento straniero. Quest’ultimo studio, ispirato ad un personaggio del drammaturgo francese Koltès, fotografa un extracomunitario alle prese con una grande città europea. È uno spirito ribelle, che ce l’ha con tutto e con tutti. A differenza delle figure che l’hanno preceduto, sembra estremamente desideroso di uscire dall’impasse in cui, suo malgrado, si ritrova; tuttavia nemmeno lui riuscirà nell’intento. Per lui, solo rabbia, pioggia e il ritmo martellante degli arti e della voce per sfogare la sua fatica di vivere.

Tra palcoscenico e spettatori due corde, incrociate a forma di X, sembrano indicare che quanto viene rappresentato servirà unicamente a parlare di vite negate, malvissute. Esistenze crocifisse a un destino crudele su cui Qualcuno ha già scritto, dall’inizio, la parola  “DELETE”.

TRE STUDI PER UNA CROCIFISSIONE
di e con Danio Manfredini
luci: Lucia Manghi
collaborazione al progetto: Andrea Mazza, Luisella Del Mar, Lucia Manghi, Vincenzo Del Prete

Visto a Rubiera (RE), Teatro Herberia, il 28 febbraio 2009

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