Trilogia degli occhiali. La dolce emarginazione di Emma Dante

Acquasanta
Acquasanta
Acquasanta (photo: Giuseppe Di Stefano)

Carmine Maringola: scomposto, il suo cognome è mar-in-gola, e “mare in gola” sono proprio i gargarismi con cui presenta ‘o Spicchiato, il protagonista di “Acquasanta”. Il monologo, scritto e diretto da Emma Dante, apre la “Trilogia degli occhiali”, ultima produzione della compagnia Sud Costa Occidentale (sino al 6 marzo a Milano).

Canta «Maruzzella Maruzzè, / t’e’ miso dint’a ll’uocchie / ‘o mare e m’e’ miso / mpietto a mé nu dispiacere», che è lo struggimento dell’innamorato a cui Maruzzella “fa battere il cuore più forte delle onde”, come recita il ritornello della canzone di Renato Carosone per la moglie Marisa. “Ma cosa vuol dire Maruzzella?”, “sarà un diminutivo di ragazza”, “ma no, è un film… o forse un frutto di mare!”. Confusi, impacciati dal napoletano, gli spettatori (milanesi) del Crt intuiscono comunque il peso di quel brano per “Acquasanta”.

Ad avere il mare in gola è un marinaio, imbarcato dall’età di 15 anni e mai più sceso, che rievoca la sua vita, persistente traversata mossa dalle onde, ma ugualmente ferma, cioè voluta così. È un mezzo mozzo alle prese con un Titanic di ricordi, e come l’innamorato che dal balcone parla alla luna, Maringola dalla prua-proscenio di una nave-palcoscenico si esibisce in 45 minuti di dichiarazione d’amore: da un uomo al mare. O forse, da un “uomo a mare!!!”, nel senso letterale e non, visto che per ‘o Spicchiato gli schizzi della mareggiata sono acqua benedetta, Acquasanta appunto: le onde carezze e baci, e la burrasca il pieno di una passione che non contiene.
Il suo habitat naturale è il mondo terreno al contrario: rispetto agli altri mar-inai che vedono solo “Terraaaa!”, lui è un mar-ziano che la vede solo da lontano. Il suo mondo sta sotto il piano dell’acqua, dove non c’è gravità (né di peso né situazione di difficoltà): è una stanza di giochi negli abissi, un mondo fantastico dove ‘o Spicchiato vive un’altra storia, e non è più un poveraccio chiamato per soprannome (gli occhiali che indossa rispecchiano la luce del sole).

Filo della trilogia sono proprio gli occhiali, indossati da chi fatica a vedere “normalmente”, e non solo per un handicap fisico: strumento che serve a colmare una distanza, evidentemente la sottolinea.

Ne “Il castello della Zisa”, le lenti sono indossate dalle due suorine Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, e da Nicola (Onofrio Zummo), ragazzo autistico che perde gli occhiali solo quando si abbandona ai ricordi della sua infanzia vissuta con la zia, nel quartiere della Zisa, di fronte al castello.
Prima ripiegato su se stesso in stato catatonico, Nicola viene risvegliato poco a poco dai giochi dell’infanzia: palline, birilli e cerchi che le suorine gli servono, come fanno al circo le assistenti con il giocoliere. E come per il clown, ai funambolismi comici si accompagna un’immagine triste. È un fantoccio con gli occhiali, uno spaventapasseri in pigiama, un ragazzo che viene riacceso dal suo stand-by, caricato a molla, come le due ballerine meccaniche che stanno ai bordi del palcoscenico.
Da apprezzare, in questo pezzo, il modo in cui all’inizio le due donne entrano nei panni delle suore. Quando il sipario si apre, le due pregano sottovoce: quelli che sembrano degli inginocchiatoi ricoperti da un telone bianco, potrebbero essere dei letti, e loro, inginocchiate, donne in sottoveste. Sono perfettamente speculari. Si alzano, lasciano intravedere corpi femminili, pieni e seminudi, prima di esibirsi in una danza/vestizione che li ricopre di strati e, gradualmente, ne azzera la sessualità.

Il ruolo drammatico dei cambi di costume “coreografati” è notevole soprattutto nell’ultima parte della trilogia: “Ballarini”.
Elena Borgogni e Sabino Civilleri sono una coppia di anziani che riavvolgono la pellicola della loro storia d’amore e ne rimettono in scena, in senso anti-orario, le sequenze importanti, servendosi di costumi e oggetti ripescati da due grossi vecchi bauli pieni dei ricordi. I frammenti sono rivissuti a ritmo di colonne sonore, e su queste i due ballano e si trasformano: il primo bacio è un twist, la gioia della dichiarazione ha i salti del boogie-woogie. Poi il matrimonio, la gravidanza, e l’inizio di una vita insieme, con la paura di allontanarsi, perdendo “il mondo intero non solo te”. Sulle parole di Mina c’è l’ultimo ballo prima di tornare alla realtà della vecchiaia. È una premonizione, fatta in età matura ma un attimo prima di abbandonare gli occhiali: “E se domani io non potessi rivedere te, mettiamo il caso che ti sentissi stanco di me, quello che basta all’altra gente non mi darà nemmeno l’ombra della perduta felicità”.
E nel finale lei rimarrà in effetti sola, ma la felicità non sarà perduta: è solo chiusa in due bauli.

Come “Ballarini” mette in scena una vecchiaia malata, grinzosa eppure tenerissima, così la “Trilogia degli occhiali” presenta la malattia, mentale e fisica, insieme alla solitudine e all’emarginazione. Condizioni toccate a chi, per un motivo o l’altro, “non mette bene a fuoco” e per questo motivo è tenuto a distanza. Condizioni penose, che Emma Dante e i suoi attori svuotano di pietismo e riempiono di dolcezza. Una visione che è quasi un miracolo.

TRILOGIA DEGLI OCCHIALI

AcquaSanta
con Carmine Maringola

Il Castello della Zisa
con Claudia Benassi, Stéphanie Taillandier, Onofrio Zummo

Ballarini
con Elena Borgogni, Sabino Civilleri

regia: Emma Dante
scene: Emma Dante, Carmine Maringola
costumi: Emma Dante
disegno luci: Cristina Fresia
durata complessiva: 2h
applausi del pubblico: 5′

Visto a Milano, Crt Teatro dell’Arte, il 16 febbraio 2011

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