Trisha Brown: dagli Early Works a oggi, un tratto di storia della post-modern dance

Opal Loop - Trisha Brown

Trisha Brown ha presentato al Romaeuropa Festival un percorso tra i suoi spettacoli più celebri, dagli anni ’70 ad oggi

Opal Loop - Trisha Brown
Un’immagine di repertorio, del 1980, di Opal Loop (photo: Babette Mangolte)

Non è semplice parlare di Trisha Brown. La sua storia, la sua statura ci sovrastano. Dai lontani anni ’70, anni in cui la post-modern dance segnò in maniera imprescindibile la danza, non ha mai smesso di inventare e re-inventare la sua arte, cercando sempre oltre l’orizzonte toccato, accettando le sfide come nuove possibilità, senza mai tradire la sua ricerca e la sua sperimentazione.

La scelta fatta dal festival Romaeuropa di presentare gli “Early Works” (pezzi risalenti appunto agli anni ’70) prima dell’atteso spettacolo al Teatro Olimpico, come anche la selezione dei brani presentati in serale, testimoniano e portano a evidenza come, nello scorrere del tempo, la sostanza sia cambiata rimanendo uguale, fedele alle scelte iniziali che l’hanno plasmata e le hanno dato corpo, pur riambientandosi e ricercandosi nei contesti e nelle necessità che l’hanno chiamata.

Sette i brani presentati al MAXXI, tutti risalenti ai primi anni ’70: brevi, fulminanti nella loro semplicità. Spaziano tra le task dance (danze che equivalgono all’attuazione di un compito) e le famose Accumulation.
Vibra un senso di purezza e di necessità assoluta, dove tutto è ciò che è senza enfasi distorcenti; corpi neutri ma efficienti nello svolgimento del compito dato, presenti nella contingenza del “fare” e per questo così potenti e ipnotici. Questa danza che si autodefinisce tale, in totale rottura rispetto al passato di cui rifiuta stilemi e accademismi, cerca nell’esserci anziché nel raccontare la sua possibilità di esistenza, e rimanda un senso di leggerezza assoluta, di possibilità totale che appaga, diverte. E’ veramente “un oggetto con cui poter giocare all’infinito”.
Le danze trovano la loro esatta collocazione negli spazi ariosi e articolati del MAXXI, essendo appunto figlie di un tempo storico in cui si cercavano e si sperimentavano anche nuovi modi di visione e percezione dell’oggetto artistico.

Anche la serata proposta al Teatro Olimpico scorre attraverso il tempo, proponendo brani che vanno da “Watermotor” del 1978 fino all’ultima creazione “I’m going to toss my arms-if you catch them they’re yours”, che si avvale di un set scenografico composto di ventilatori industriali e della colonna sonora di Alvin Curran eseguita dal vivo al pianoforte.
Ripercorriamo così la storia artistica di questa coreografa, ma in senso più lato interprete di un tempo, che proprio con “Watermotor” diede una sterzata rispetto alle composizioni iniziali, cercando una più complessa strutturazione coreografica non solo nella composizione strutturale del pezzo ma anche nella fisicità corporea.
Il risultato fu questo solo estremamente dinamico che gioca con l’elasticità del corpo in combinazioni imprevedibili e apparentemente incontrollate.
Nella serata romana l’esecuzione del pezzo è stata affidata a un danzatore che è sembrato lontano dalla libertà che contraddistingueva la qualità del movimento di Trisha Brown, per cui il brano è risultato appesantito da una forza che ne modificava in qualche maniera l’essenza.

Un salto agli anni ’80 arriva con “Opal Loop/Clous Installation #72503”: sono anni in cui il passaggio dalla strada ai palcoscenici era già compiuto. Le convenzioni teatrali erano ormai parte del lavoro di Trisha Brown, anche se ripensate in una maniera che le potesse essere congeniale.
La scenografia, una grande nuvola di nebbia e vapori, è una installazione visiva di Fusjiko Nakaya, come a dire che la dimensione espositiva è trapiantata nel teatro. Si gioca sulla dinamica di apparizione-sparizione, i danzatori sono come solisti in uno spazio condiviso, tempesta di movimenti angolati e spigolosi, una lotta per uscire dal proprio mondo isolato.

Un altro salto e arriviamo agli anni ’90 con “Foray Foret”, la cui grande forza risiede nel rapporto con l’elemento musica. Una banda suona in lontananza, il suono si fa più forte per morire poi di nuovo lontano, eco di una strada che trova così una connessione con l’elemento teatro, in un gioco tra il dentro e il fuori, lo spazio urbano e lo spazio teatrale.
Non c’è alcun collegamento tra il suono e la danza che vive sulla scena, ma un incontrarsi nella percezione, e tutto ciò crea uno straniamento vivificante sia nell’ascolto che nella visione.
Ed è veramente  stupendo trovare i musicisti nel foyer del teatro, dove continuano a suonare per tutta la pausa tra la prima e la seconda parte dello spettacolo; musicisti veramente della strada: sciarpe colorate, dred asimmetrici, jeans, gonne variopinte, cappotti e felpe, spartiti tenuti in mano. E’ la Stradabanda del quartiere Testaccio, un collegamento profondo tra ciò che si era, da cui si è provenuti, e ciò verso cui si sta andando.

La musica torna anche nella suite tratta da “Pigmalion”, testimonianza del periodo che ha visto Trisha Brown misurarsi con il narrativo delle opere liriche o, come in questo caso, di balletti. Anche qui il rapporto con il suono non è di dipendenza; il fluire dell’armonia si combina con il fluire del movimento danzato, che nasce e si produce da un senso dinamico interno al corpo e non come descrizione del suono.
L’uso del peso e dell’impulso direzionato creano un tappeto continuo di movimento, sul quale si innestano piccole fratture subito ricomposte e riassorbite nel fluire generale: una mano che si è spostata dalla linea della altre mani, un corpo o una parte di corpo che improvvisamente prende un’altra direzione rispetto a quella del gruppo, il tutto eseguito non con intenti di rottura ma come esemplificazione del caos che ha contraddistinto proprio l’epoca post-modernista.
C’è una visione fluida e cangiante che non tende a nessun climax ma mantiene una tensione dinamica sempre uguale a se stessa; l’occhio dello spettatore si disperde continuamente nelle dinamiche del disegno coreografico e nelle sfumature del movimento, senza poter mai cogliere il tutto, trascinato dentro uno scorrere continuo, che è anche lo scorrere della danza dentro gli stessi corpi dei danzatori. Il movimento va liquido attraverso gli snodi articolari liberi da costrizioni e sempre a disposizione per gli improvvisi cambi di impulso e di direzione.

Alla fine della serata resta questo senso di libertà e di leggerezza, e una domanda che aleggia nella testa: ma quanto ci si può divertire a danzare così?

EARLY WORKS
coreografie: Trisha Brown
danzatori: Neal Beasley, Elena Demyanenko, Laurel Jenkins Tentindo, Dai Jian, Tara Lorenzen, Leah Morrison, Tamara Riewe, Nicholas Strafaccia, Samuel Wentz
musiche: Haisch “1992”
durata: 60′
applausi del pubblico: 2’

LES YEUX ET L’AME
coreografia: Trisha Brown
scenografia: Trisha Brown
musiche: Estratti da Pygmalio di J.P.Rameau
luci: Jennifer Tipton
costumi: Elizabeth Cannon

WATERMOTOR
coreografia:Trisha Brown
luci: Jennifer Tipton
costumi: Deanna Berg
creazione realizzata dal National Endowment for the Arts

FORAY FORET
coreografia:Trisha Brown
scenografia e costumi: Robert Rauschenberg
musiche a scelta della Stradabanda
luci: Spencer Brown con Robert Rauschenberg

OPAL LOOP/CLOUD INSTALLATION #72503
coreografia:Trisha Brown
scenografia: Fujiko Nakaya
musiche: Estratti da Pygmalio di J.P.Rameau
luci: Beverly Emmons
costumi: Judith Shea
ambiente scultoreo/realizzazione: Julie Martin

I’M GOING TO TOSS MY ARMS – IF YOU CATCH THEM THEY’RE YOURS
coreografia:Trisha Brown
scenografia: Burt Barr
musica composta e interpretata al pianoforte da Alvin Curran
luci: John Torres
assistente alla coreografia: Carolyn Lucas
assistente Fonica: Luca Spagnoletti
commissione del Theatre NAtional de Chaillot in coproduzione con Trisha Brown Company
durata: 2h
applausi del pubblico: 3’

Visti a Roma, Teatro Olimpico e Maxxi, il 22 ottobre 2011
RomaEuropa Festival

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